Joe Biden ha fatto un’operazione verità parlando al popolo americano martedì sera: ha detto che dopo vent’anni di guerra, oltre ventimila feriti e mutilati, duemila morti tra i soldati americani non si poteva continuare: «Mi rifiuto di mandare un’altra generazione di giovani americani a morire laggiù», ha detto. Ma sono rimaste nell’ombra le vittime afghane, in particolare i civili, compresi quelli uccisi nell’ultimo attacco, 72 ore fa.

Biden ha anche citato gli immensi costi della guerra, di fatto nascosti da tutti i presidenti nelle pieghe dell’incomprensibile bilancio del Pentagono, che succhia ogni anno 750 miliardi di dollari, ovvero 5 volte di più di quello che costava quando gli Stati Uniti avevano un avversario come l’Unione Sovietica, dotata di migliaia di testate nucleari.

Operazione verità condotta, naturalmente, all’interno dei limiti del dibattito politico americano, che non tollera che si metta in dubbio la giustezza delle scelte della «Nazione redentrice». Biden è stato attaccato furiosamente da giornali e televisioni per le scene di caos all’aereoporto di Kabul, a cui però non c’era rimedio se non continuando la guerra al posto dell’inesistente esercito afghano. Una sfilata di generali in pensione e strateghi da poltrona gli ha rimproverato la «sconfitta» quando in realtà il ritiro dei giorni scorsi era il risultato di accordi firmati un anno fa da Donald Trump a Doha.

Accordi che, a loro volta, erano la semplice presa d’atto della realtà di una guerra impossibile da vincere per motivi che qualsiasi cadetto di West Point avrebbe potuto spiegare benissimo già nel 2001, una guerra che assomigliava a una elaborata operazione teatrale: da anni le forze della Nato controllavano soltanto una manciata di città e vie di comunicazione, mentre gran parte del territorio era nelle mani dei talebani.
Biden non poteva dire quello che il complesso militare-industriale-giornalistico di Washington non vuole sentirsi dire, ovvero che l’Afghanistan è stato il frutto di errori e menzogne di tre presidenti: Bush jr., Obama e Trump. Prima di tutto la grande menzogna iniziale: una guerra per catturare o uccidere Osama Bin Laden, che i talebani nel 2001 avrebbero consegnato, se gli americani avessero fatto sul serio nelle trattative.

L’amministrazione Bush, e in particolare il vicepresidente Dick Cheney e il segretario alla Difesa Donald Rumsfeld in realtà non volevano catturare i responsabili degli attentati dell’11 settembre: volevano vendetta. Volevano uno spettacolare successo militare per cancellare gli attentati di New York. Nello stesso tempo, volevano dimostrare che si potevano vincere le guerre con zero perdite, come era avvenuto in Kosovo nel 1998.

Il prezzo di questa scelta, però, era quello di far condurre le operazioni sul terreno a bande di tagliagole prezzolati, pomposamente ribattezzati Alleanza del Nord, tra cui il famigerato generale Abdul Dostum, responsabile della morte di duemila prigionieri talebani, lasciati soffocare in container sigillati nel dicembre 2001. Dostum è di origine uzbeca, così come Ahmad Massoud era un leader dei tagichi: potenti signori della guerra che non avevano nessuna idea «nazionale» dell’Afghanistan. Ancor meno ce l’aveva Hamid Karzai, il più opportunista e voltagabbana dei politici pashtun che non a caso, dopo due mandati come presidente protetto dagli americani, ora potrebbe tornare utile anche ai talebani.

In Afghanistan non c’è mai stato un governo nazionale, men che meno un governo democratico, o un esercito locale: c’erano politici e funzionari corrotti al servizio della potenza imperiale di turno. Una potenza imperiale che da più di dieci anni stava lì perché doveva «salvare la faccia», non per garantire alle bambine afghane di poter andare a scuola, come fingono di credere oggi i nostalgici degli Stati Uniti come guardiani dell’ordine internazionale.

Non si ricordano editoriali strappalacrime sulle bambine uccise dagli attacchi aerei, o sulle donne vittime di missili destinati a «sospetti terroristi». Biden è stato per otto anni a fianco di Obama e ha condiviso le responsabilità della sua amministrazione, compreso l’aumento dei soldati sul campo e la nomina di due generali che «avrebbero saputo vincere»: prima Stanley McChrystal e poi David Petraeus. Naturalmente i generali non ebbero alcun successo e se la cavarono dando la colpa ai politici, come sempre avviene negli Stati Uniti. Meno intimidito dalle stellette di quanto non fosse Obama, oggi Biden ha fatto una scelta che mostra un notevole coraggio politico, accettando il rischio di una tempesta di critiche ma facendo quello che l’opinione pubblica americana voleva già da anni: metter fine alla guerra.

Restano gli attacchi con i droni, restano le vittime civili, resta la sorte di migliaia di afghani che ingenuamente avevano collaborato con gli occupanti: il ritiro del 30 agosto non sarà sufficiente per mettere fine alle tragedie dello sventurato Afghanistan.