«Noi vogliamo distruggere i musei, le biblioteche, le accademie d’ogni specie», tuonava in tutta la sua enfasi Marinetti agli inizi del ’900. Scagliandosi contro ogni forma di relazione con la tradizione e il passato, l’artista promuove la prima trasformazione moderna di un concetto di arte che vuole lo spettatore al centro del quadro, fuori dalla cornice contemplativa.
Da quel momento niente sarà più come prima: la crisi del modello museale tradizionale si preannuncia abbattendone lo stereotipo tradizionale e bloccato di vetrina accademica dove l’opera risulta secondo la visione dell’avanguardia, neutralizzata nella sua peculiarità di agente trasformativo, sottratto come sottolinea la post-avanguardia degli anni ’60 e ’70 alle logiche del consumo.

L’IDEA DI MUSEO contemporanea si declina non tanto nell’ideazione di nuove strategie allestitive quanto proprio nello sviluppo di quell’attitudine immersiva, che vede l’osservatore un soggetto attivo e consapevole. La trasformazione da luogo deputato ed elitario in spazio pubblico e condiviso – che non viene meno alla sua funzione conservativa – rientra in una nuova visione estetica, quella di un’arte che evade dai confini oggettuali e si fa dispositivo di trasformazione della città e del territorio, ovvero «l’arte della sfera pubblica», un fenomeno che – nelle sue varie declinazioni – punta sul processo partecipato che la realizza. Il museo contemporaneo come meccanismo polivalente si espande pertanto nel territorio urbano e naturale in sinergia con progetti creativi condivisi, in termini interculturali e transdisciplinari, dove la formazione svolga un ruolo fondamentale.
Giulio Carlo Argan già alla fine degli anni ’70, teorizzando la storia dell’arte come storia della città, parla di «un museo come laboratorio attivo di riflessione e di interferenza con la contemporaneità», con archivi, centri di documentazione e servizi per la cultura. Un luogo, dunque, concepito anche da Baudrillard come «plasmabile, elastico, effimero, labile, antivolumetrico» che si dissemina sul territorio, innescando un processo di rigenerazione sociale e politica.
La visione identitaria del territorio disegna nuove poetiche per una progettualità interdisciplinare, interculturale e partecipata mediante la sperimentazione sul campo di linguaggi visivi, relazionali per ripristinare quei valori basilari delle comunità locali ovvero qualità ambientale, utilità, vivibilità e bellezza. Una gestione della città, perché proprio questo è il punto, che si lasci alle spalle l’urbanistica e la pianificazione tradizionale come obsolete discipline tecnico-normative – anche nella versione fintamente partecipativa – per una nuova dimensione autenticamente collettiva. Una dimensione fondata sull’approccio creativo agli spazi periferici, sulla riconversione di quelli dismessi e delle aree abbandonate, mediante pratiche associative e collettive di volontarismo e cooperazione, generatrici inoltre di microeconomie locali.

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SI PARLA di una crescita urbana e di una rigenerazione territoriale ecosostenibile, a minimo consumo di suolo, affidata alla riqualificazione di spazi periferici e di cerniera, i cosiddetti «scarti della pianificazione», al riuso di dismissioni, fabbriche abbandonate, caserme, vecchi magazzini e opifici fino ai musei nomadi, diffusi e inclusivi: un’inversione di rotta radicale rivolta al territorio, nel quadro di una progettualità interdisciplinare, dove gli artisti dialoghino con le comunità locali, con il contesto, la sua storia, la sua morfologia ritessendone le trame affettive.
Attraverso una sorta di «agopuntura urbana», sollecitando l’immaginario e il senso di appartenenza, può crearsi il cortocircuito dell’atto creativo olistico, tipico del procedimento estetico che sfocia in un’arte esperienziale come intuisce il «territorialista» per definizione Alberto Magnaghi.

Tutto ciò se pensato in una logica di rete e di sistema, concorre ad una valorizzazione del territorio e delinea la riconversione dell’entità museale, mediante la ricerca di soluzioni pensate per una ricaduta nel processo di crescita culturale e di qualità della vita. Le pratiche innovative di interazione tra entità museale, contesto e pubblico che vedono la collaborazione fra artisti, curatori, architetti, urbanisti, designer, mediatori culturali, sociologi, antropologi, soggetti imprenditoriali e associazioni di cittadinanza attiva, innescano processi integrati di trasformazione insediativa legata ai beni pubblici. Un fenomeno che, a livello internazionale, ha prodotto una reale crescita economica e sociale; giunto negli anni ’90 in Italia, si declina più che in vera e propria messa a sistema dei progetti in diffusione di pratiche artistiche e azioni per lo più autoprodotte, nate dall’iniziativa di associazioni, curatori e qualche amministrazione illuminata, «pensate non per la gente, ma con la gente». L’ecosistema creato dall’interdipendenza di gesti e atti è il luogo etico della coscienza sociale e civica, espressione di un «diritto alla città»: una sfida che vede gli abitanti che, in qualità di «nuovi committenti», sono fautori di un processo condiviso per il recupero urbano in chiave ecosostenibile.

L’Italia, terreno fertile per la germinazione di pratiche artistiche relazionali e processuali che disegnano nuove mappe di territorio, soffre per la mancanza di una efficace messa a sistema: Torino costituisce l’esempio virtuoso del primo comune italiano a fronte di un’amministrazione illuminata, ad aver applicato il protocollo dei «Nuovi Committenti», ideato da François Hers nel ’92 a Parigi, e adottato dalla Fondazione Olivetti con diverse linee guida e secondo una metodologia flessibile, nella riqualificazione del quartiere Mirafiori nel 2004. L’abitante è il committente di un processo in cui la figura del mediatore, espressa in questo caso dal gruppo curatoriale «a.titolo», ne interpreti le esigenze, scegliendo, poi, l’artista idoneo per un intervento calibrato che riconfiguri e riqualifichi il luogo.
Sempre a Torino il Parco d’Arte Vivente (Pav) ideato da Piero Gilardi e curato da Orietta Brombin, nato nel 2008, è un particolare parco urbano sorto su un’area dismessa ex industriale, un luogo «naturale», rigenerativo e generativo, di incontro e ricerca con la partecipazione attiva della cittadinanza, orientato verso temi ambientali e sperimentazioni interdisciplinari.

LA FONDAZIONE No man’s land immersa nella natura abruzzese, è un progetto del 2017 ideato dalla lungimiranza di Mario Pieroni e Dora Stiefelmeier, a sfondo etico e sociale, dove un bene privato viene offerto come bene comune attraverso un percorso che lo restituisca di fatto alle persone: un «modello replicabile» dove si sperimentano iniziative ecosostenibili, ispirate al grandissimo e anomalo – architetto e artista visionario – Yona Friedman (che figura in qualità di presidente onorario), autore di installazioni ambientali site specific e partecipate, con la collaborazione di J. B. Decavèle. La sua intuizione di un museo che fuoriesca dai suoi muri fisici e disciplinari per farsi «ponte» assume il sapore di un’auspicabile metafora di trasformazione epocale.
Che il museo nella sua nuova accezione sia agente di sviluppo di politiche integrate urbane, culturali, sociali e territoriali, riempia quel vuoto del riconoscimento della sinergia tra pratiche artistiche relazionali, ambiente urbano e politiche culturali, è da tempo al centro dell’attività dell’associazione Connecting Cultures, fondata da Anna Detheridge nei primi anni Duemila a Milano, che si dà la missione, attraverso progetti formativi interdisciplinari e interculturali, della riconfigurazione di paesaggio e spazio urbano attraverso pratiche artistiche e creative e processi di inclusione attiva.

È dunque proprio nella crescita della coscienza critica sociale che risiede la necessità di un museo che, svolgendo e moltiplicando le sue funzioni, sia strumento della centralità del pubblico come elemento vitale e politico nel senso più ampio del termine, nonché portatore di un valore etico e strategico che abbia un’effettiva incidenza sulle politiche sociali locali.
Il riconoscimento delle pratiche informali, dei percorsi di «ricerc-azione», della finalità formativa dell’esperienza artistica, sottolinea il ruolo critico dell’arte nel fare e pensare la città e il territorio: indirizzare i musei verso relazioni e coprogettazioni territoriali significa sviluppare reti di comunità, luoghi condivisi di formazione creativa e critica.