L’epoca di Richard Strauss si muove su un crinale, affacciata da un lato verso una modernità matura, fatta di sperimentazioni compiute e forme canonizzate, affamata di realtà e di denotazione, e dall’altro verso il neonato modernismo, fatto di ricerche appena iniziate e forme in progress, avida di bellezza e di connotazioni. La sua musica si sforza di amalgamare i modelli della tradizione tonale con gli sconfinamenti coevi nell’atonalità, il descrittivismo ottocentesco con la resa al più puro asemantismo delle avanguardie, producendo equilibri sempre mutevoli e dall’aspetto portentoso.

NE È UN ESEMPIO Die ägyptische Helena (1928), quinto capitolo della collaborazione con il poeta Hugo von Hofmannsthal, che nel libretto mescola i miti della tragedia classica con gli articoli del dramma borghese e i principi della psicoanalisi freudiana. Un doppio spericolato tentativo di sintesi di paradigmi conoscitivi ed estetici diversi. Il risultato è una drammaturgia anfibia, cangiante, precaria, capricciosa, stupefacente, il cui tratto distintivo non deve essere sfuggito agli artefici dell’allestimento dell’opera in scena fino al 29 novembre alla Scala di Milano, che la mette in cartellone per la prima volta in 90 anni.

IL REGISTA Sven-Eric Bechtolf, lo scenografo Julian Crouch, il costumista Mark Bourman e il light designer Fabrice Kebour architettano una macchina scenica che ha le fattezze di una enorme RCA Victor Radiolette R-5, una radio che in scala minore viene maneggiata anche dalla maga Aithra, responsabile della trama. Una macchina che ci proietta nelle atmosfere art déco che caratterizzano gli anni in cui Strauss compone l’opera, riportandoci davanti agli occhi i mobili di Jacques-Émile Ruhlmann ispirati all’ebanisteria parigina fra Rococò e Stile Impero, o quelli più essenziali di Eileen Gray, così come le scene dei grandi melodrammi del cinema muto (in particolare quella di Natacha Rambova per Camille, 1921): un mondo in cui il capriccio, la sovrapposizione delle linee, la giustapposizione di forme angolari e curve, l’opulenza dei materiali e dei tessuti, la mollezza dei costumi tradiscono il bisogno di tenere insieme e armonizzare tradizioni diversissime e di esorcizzare gli orrori della Grande Guerra.

COSÌ LA VANESIA Elena (Ricarda Merbeth), il vendicativo Menelao (Andreas Schager), la manipolatrice Aithra (Eva Mei) e il rude Altair (Thomas Hampson) si muovono con la stessa enfasi compiaciuta di Marguerite (Alla Nazimova), Armand (Rodolfo Valentino), Prudence (Zeffie Tilbury) e Varville (Arthur Hoyt) in Camille. Ma soprattutto ci restituiscono la vocalità sensuale, anch’essa enfatica e capricciosa, di Strauss. In particolare Merbeth e Schager scalano i loro ruoli impervi con emissione, volume ed estensione che quasi spaventano nella loro tenuta rocciosa; Mei, che punta più sui dettagli, e Hampson, che delude nella parte acuta, si muovono con padronanza della scena. La direzione di Franz Welser-Möst restituisce tutta l’infinita pastosità timbrica e armonica della partitura di Strauss, addomesticandone le virate telluriche e proporzionandole alla performance canora.