L’inaugurazione della stagione del Teatro alla Scala di Milano arriva come ogni anno puntuale a ricordarci che abbiamo bisogno di riti collettivi. In una cultura come quella popolare italiana, storicamente «conformista, colonialista, razzista, schiavista, qualunquista» (è Pasolini a dircelo), dimenticati il saturnale pagano e il carnevale cristiano (ridotto a una festa per bambini), eccezion fatta per le partite di calcio e i social network, non ci sono più cerimonie aggreganti dove le componenti della società (le classi, i poteri, gli stereotipi) possano incontrarsi se non proprio mescolarsi.

LA CONTRAPPOSIZIONE rituale delle due compagini di figuranti, quella dentro e quella fuori dal teatro, in un’orgia di voci, pose e maschere, ci ricorda che nell’ultimo intervallo tra la vecchia e la nuova stagione scaligera (come in quello imminente tra il vecchio e il nuovo anno) si replica un processo mitico di rigenerazione dove la rappresentazione del caos è finalizzata alla conferma dell’ordine (sociale). Dentro il teatro: il silenzio che fa da cornice ai fasti dello spettacolo. Fuori: il rumore della protesta di una società che reclama l’attenzione della politica e dei media mostrando una generica insofferenza verso l’esibizione del lusso. Tra gli ospiti illustri della serata, il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, accolto da un’ovazione, prova di un «santo di patria indefinito amor!» in cerca di riscatto, il Presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati e il Ministro dell’Economia Giovanni Tria.
L’opera scelta per l’inaugurazione è Attila di Giuseppe Verdi, con la quale il direttore musicale Riccardo Chailly prosegue la sua esplorazione del repertorio giovanile di Verdi (si pensi alla Giovanna d’Arco che aprì la Stagione 2015-2016 e al venturo Macbeth). Presentata per la prima volta alla Scala nell’edizione critica curata nel 2012 da Helen Greenwald per University of Chicago Press e Casa Ricordi, la partitura dell’opera, che debuttò al Teatro la Fenice di Venezia nel 1846, è stata arricchita dall’aria «Oh dolore!», composta da Verdi in sostituzione di quella originaria per il tenore Napoleone Moriani in occasione della prima milanese, e da alcune battute scritte da Rossini per l’inizio del III atto e oggi conservate nella collezione del Museo Teatrale della Scala.

ALLE SPALLE i trionfi nazionali di Nabucco ed Ernani, Attila si colloca nella fase in cui Verdi sperimenta nuovi soggetti e nuove forme drammaturgiche mentre si prepara a debuttare sulla scena internazionale con I masnadieri (Londra) e Jérusalem (Parigi). Così si spiegano la musica descrittiva, accompagnata da effetti di luce accuratamente studiati, per raffigurare il temporale e l’alba, e l’insistenza sulle scene di massa. Chailly non solo dirige con mano salda ed entusiasta le pagine più spettacolari di una partitura che infiammò le platee risorgimentali, inclini a interpretarla come un invito alla rivolta contro l’oppressione straniera (i moti del 1848 erano vicini), ma cesella con cura le scene intime in cui affiora la fragilità e l’ambiguità di personaggi come Attila o Odabella.

ILDAR Abdrazakov, al suo terzo 7 dicembre, dà al protagonista un carattere statuario e allo stesso tempo lacerato da conflitti interiori; Saioa Hernández, al suo debutto alla Scala, scolpisce un’Odabella impervia e allo stesso tempo lirica; Fabio Sartori è un Foresto squillante, George Petean un Ezio giustamente mellifluo.L’allestimento suggestivo di Davide Livermore, che nei mesi scorsi ha collaborato con Chailly al Don Pasquale di Donizetti, da un lato non precisa il tempo dell’azione, collocandola tra gli orrori di una terra d’occupazione del XX secolo (in cui si riconosce l’abbraccio nazi-fascista) grazie alle scene di Giò Forma e ai costumi di Gianluca Falaschi, dall’altro lato esplicita le cause del desiderio di vendetta di Odabella e della debolezza di Attila e rende le scene della tempesta e del sogno grazie alle luci di Antonio Castro e agli effetti di projection mapping e in lwarping dei video di d-Wok.