«Non c’è il taglio della produzione del petrolio…l’Opec ha preso una buona decisione». Sono state sufficienti queste poche parole pronunciate ieri pomeriggio al termine del vertice Opec a Vienna dal ministro del petrolio saudita, Ali Al-Naimi, per far crollare in poche ore la quotazione del Brent e quella del Wti sotto i 70 dollari. In tarda serata la tendenza era sempre al ribasso, verso un prezzo che il petrolio non toccava da oltre quattro anni. E mentre gli automobilisti occidentali, apprendendo la notizia, si rallegravano sognando un netto calo alla pompa del prezzo di benzina e gasolio – sogno destinato a svanire ancora una volta a causa delle tasse governative e delle speculazioni sul greggio messe in opera dalle grandi compagnie petrolifere – i rappresentanti di Iran e Venezuela, che avevano insistito per un taglio della produzione volto a far risalire il prezzo del barile (e con esso le entrate di valuta pregiata nelle loro casse) non hanno potuto far altro che ammettere la sconfitta.

Di fronte al secco «no» dell’Arabia saudita e delle altre petromonarchie del Golfo, i 12 Paesi membri dell’Opec hanno mantenuto a 30 milioni di barili al giorno il tetto della produzione. Il ministro saudita non ha voluto contemplare il taglio anche soltanto di un milione di barili così come gli esperti del settore, o almeno quelli più ottimisti, avevano previsto. Motivo ufficiale? Riyadh sostiene che senza garanzie da parte degli Stati che non fanno parte del cartello di Vienna, i tagli della produzione potrebbero essere immediatamente colmati da altri paesi, vanificando così gli sforzi per far risalire il costo del barile e facendo perdere ai membri dell’Opec sostanziose quote di mercato. Una tesi non infondata ma anche gli interessi strategici e le rivalità regionali hanno un peso in quella che è stata chiamata la «guerra dei prezzi». A cominciare dal conflitto a distanza tra Arabia saudita e Iran per finire ai «colpi» che Riyadh prova a dare a Russia e Venezuela, alleati dell’Iran e del presidente siriano Bashar Assad.

Il ministro degli esteri venezuelano Rafael Ramirez perciò ha lasciato la riunione visibilmente contrariato. Il rappresentante di Tehran invece ha ostentato tranquillità. «Non è la decisione che voleva l’Iran ma non siamo arrabbiati», ha commentato il ministro del petrolio Bijan Zanganeh. E invece a Tehran l’esito del vertice dell’Opec ha fatto stringere i pugni dalla rabbia a parecchi dirigenti della Repubblica islamica. Con il prezzo del petrolio in continuo calo e i pesanti riflessi delle sanzioni economiche internazionali che subisce da anni, l’Iran dovrà fare bene i conti nelle sue casse sempre più vuote. Allo stesso tempo a Tehran non tutti guardano con sfavore al mancato taglio della produzione Opec e condividono la stessa paura dei sauditi di perdere quote di mercato di fronte alla crescita di quella statunitense, ai massimi in questi ultimi anni, destinata però a rimanere fuori mercato se i livelli di prezzo diventeranno insostenibili. L’obiettivo sarebbe quello di costringere gli americani a frenare la produzione fondata sullo Shale Oil, ossia il petrolio che si ricava con la trivellazione che frantuma le rocce.

Secondo i dati degli esperti internazionali presto l’America del Nord sarà in grado di produrre almeno 4 milioni di barili al giorno di Shale Oil e di petrolio estratto dalle sabbie bituminose del Canada. Gli Stati Uniti, principali consumatori di energia del mondo, producono oggi 8,5 milioni di barili al giorno e grazie anche alla quota di Shale Oil le importazioni nette sono scese a 5,2 milioni. Tuttavia lo Shale Oil non è più competitivo sotto gli 80 dollari al barile (tra 60 e 70 secondo altri calcoli) e con prezzi bassi molti produttori rischierebbero la bancarotta essendosi indebitati per gli investimenti già fatti e per portare avanti per le ricerche. Questa prospettiva dovrebbe indurre i produttori di questo tipo di petrolio a frenare e il mercato mondiale, pensano a Riyadh e con meno ottimismo a Tehran, potrebbe nel giro di un anno o due stabilizzarsi su un costo del barile ben più alto di quello attuale.

Il futuro immediato però parla di un eccesso di offerta di fronte ad una domanda di petrolio calata sensibilmente a causa soprattutto della crisi economica che colpisce in particolare le economie occidentali. I danni per Tehran – che dal petrolio ricava il 60% delle sue entrate – si annunciano pesanti mentre i ricchi regnanti sauditi hanno riserve di valuta per andare avanti 2-3 anni senza grandi problemi. A soffrire per il calo del prezzo del barile è anche l’Iraq devastato dalla guerra interna e che vede i suoi giacimenti minacciati dai jihadisti dello Stato Islamico (che vendono il greggio iracheno e siriano sul mercato nero ricavando almeno 2 milioni di dollari al giorno). Senza dimenticare le tensioni legate ai giacimenti petroliferi tra il governo centrale a Baghdad e i dirigenti curdi.