Se gli studi post-coloniali si sono imposti sulla scena del pensiero critico a partire dalle analisi post-marxiste di Edward Saïd, dall’innesto della decostruzione sul femminismo iniziato da Gayatri Spivak, o dalla ricezione della storiografia indiana «subalternista» (Ramachandra Guha, Dipesh Chakrabarty, Partha Chatterjee), la pubblicazione de Il nemico intimo. Perdita e recupero dell’identità sotto la dominazione coloniale di Ashis Nandy (a cura di U. Rossi e S. Mercanti, Forum, Udine, 2014, pp. 125) ha il merito di documentare un altro filone della critica post-coloniale, filone che non deriva né dal marxismo né dal post-strutturalismo francese, ma dal tentativo di concepire una sociologia freudiana del mondo post-coloniale, e in particolare del subcontinente indiano e dell’Asia meridionale, caratterizzati dalla persistenza dell’elemento religioso e dalla resistenza di quest’ultimo rispetto ai tentativi di riassorbirlo nella costruzione delle varie identità nazionali.

Una seduzione traumatica

Ashis Nandy è una figura di spicco del pensiero critico indiano, ben noto nel mondo anglofono e in Asia, assai meno in Europa. Ci si deve dunque felicitare di questa traduzione che rende finalmente disponibile il primo libro importante di Nandy, pubblicato nel già lontano 1983. Il nemico intimo si compone di due sezioni: nella prima, «Psicologia del colonialismo», Nandy rilegge a suo modo il libro omonimo dello psicoanalista francese Octave Mannoni per delucidare come il colonialismo si configuri in quanto una vera e propria esperienza di seduzione traumatica, cioè d’identificazione inconscia con l’aggressore e d’introiezione della sua imago. Ed è proprio una tale introiezione a giustificare, per Nandy, il primato dialettico del colonizzato sul colonizzatore: «Il ragionamento essenziale è semplice. Tra il padrone moderno e lo schiavo non-moderno si deve scegliere lo schiavo non perché si debba scegliere la povertà volontaria o ammettere la superiorità dei sofferenti, non solo perché lo schiavo è oppresso, nemmeno perché lavora (cosa che, diceva Marx, lo rende meno alienato del padrone). Si deve scegliere lo schiavo perché egli rappresenta una cognizione di ordine più elevato, che deve necessariamente includere il padrone come essere umano, mentre la cognizione del padrone deve escludere lo schiavo se non come “cosa”».

Complesso di dipendenza

Il primato del colonizzato è quindi logico, ancor prima che morale. Questa prospettiva permette a Nandy d’andare oltre il «complesso di dipendenza» teorizzato da Mannoni nel suo saggio del 1947, scritto al crepuscolo della dominazione coloniale francese sul Madagascar, e duramente criticato da Frantz Fanon in Pelle nera, maschere bianche. Nandy fa infatti propria l’idea di Mannoni di un’interdipendenza inconscia suscitata dall’impatto coloniale, impatto che trasforma non solo chi lo subisce, ma anche chi lo impone. Da qui la notazione di Mannoni citata in esergo: «Il problema della colonizzazione non riguarda solo i paesi d’oltremare. Il processo della decolonizzazione è anche in corso nella madrepatria, nelle nostre scuole, nelle richieste di uguaglianza delle donne, nell’istruzione dei bambini e in molti altri campi. Se certe culture si dimostrano capaci di distruggerne altre le forze distruttive generate da queste culture agiscono anche internamente».

La seconda parte del libro («La mente decolonizzata») svolge dunque, con brio e spiccato senso della formula, il tema dell’interiorizzazione del nemico in alcune figure-chiave della presa di coscienza post-coloniale indiana d’inizio Novecento (come i mistici e uomini d’azione Sri Aurobindo e Swami Vivekananda); ma anche l’interiorizzazione erotico-malinconica dell’Altro nella letteratura britannica dell’epoca vittoriana (Kipling), seguendo il filo conduttore dell’infantilizzazione e della femminizzazione, più o meno inconsce, del colonizzato, e delle loro ricadute fantasmatiche su entrambi i protagonisti dell’incontro coloniale. Ma è negli ultimi paragrafi della prima sezione che si trova il nocciolo più originale e propositivo dell’analisi di Nandy, la sua rilettura meta-analitica del gandhismo. L’autore rivendica infatti una lettura della psicologia di massa implicita in Gandhi come una risposta non reattiva, uno spostamento e un’elaborazione autoanalitica del discorso coloniale e dei complessi da esso derivati.

La rivalutazione gandhiana del femminile, inteso come psicologicamente superiore alla virilità ed irriducibile alla passività, alla castrazione o all’effeminazione, rappresenta, per Nandy, una vera e propria catacresi del discorso coloniale, cioè uno spostamento in grado di trasformare una stimmate in risorsa dinamica ed in superamento della contrapposizione dominante tra virilità e femmineo. Lo stesso vale per il motivo dell’infanzia: la critica gandhiana della Storia, e la sua rivalutazione del mito e dell’idea di una ciclicità del tempo storico irriducubile ad una razionalità progressiva rappresenta una mossa fondamentale per sottrarsi al positivismo del discorso coloniale, ma anche a quello della reazione anti-coloniale, e di riattivare l’idea che sussistano, nella storia collettiva, risorse sufficienti per rompere l’incanto della sottomissione, rivalutando una serie di figure, di immagini e di valori rimossi, la cui arcaicità diventa una risorsa.

Il nazionalismo indù

Questa doppia rivendicazione gandhiana del «Femminile» e dell’«Infantile» permette di sovvertire i parametri della logica coloniale, ponendo le basi di un’azione collettiva inedita. In questa sorta di rivalutazione freudiana del gandhismo sta il cuore della lettura di Nandy, ci che lo distingue dalla gran parte degli approcci post-coloniali in India (solitamente critici verso il gandhismo), il suo contributo al rilancio degli studi su Gandhi in questi ultimi anni, e il suo apporto ad una critica antropologicamente esigente del nazionalismo indù, considerato non tanto come un tradimento del gesto gandhiano, ma come travestimento identitario del desiderio di uniformarsi al modello, ormai spettrale ma fantasmaticamente sempre efficiente, dello Stato-Nazione europeo.