Mentre il Programma alimentare dell’Onu ha deciso di sospendere gli aiuti nello Stato birmano del Rakhine dove, dal 25 agosto, infuria l’ennesimo pogrom contro la minoranza rohingya, i militari del Myanmar hanno innescato anche una guerra di numeri.

Fonti governative hanno tracciato un bilancio di 2.625 case date alle fiamme nei villaggi di Kotankauk, Myinlut e Kyikanpyin e in due distretti. Ma sarebbero case incendiate dall’Arsa (Arakan Rohingya Salvation Army), il gruppo armato definito “terrorista” responsabile degli attacchi di agosto.

Un conteggio che non risponde a quanto affermano le testimonianze degli sfollati e le ricerche di Human Rights Watch che accusano i militari della responsabilità degli incendi: «Nuove immagini mostrano la totale distruzione di un villaggio musulmano e fanno crescere seriamente la preoccupazione che tale stato di devastazione nel Nord del Rakhine possa essere ben più vasto di quanto credevamo», ha detto alla Reuters Phil Robertson il vicedirettore Asia dell’organizzazione. In quel villaggio il 99% degli edifici è andato in fumo.

Secondo l’Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati il bilancio di chi è in fuga verso il Bangladesh ha ormai sfondato quota 58mila e fa pensare che il pogrom sia di proporzioni ancora più vaste di quello dell’ottobre scorso, quando in migliaia scapparono verso il Paese vicino.

Ma oggi le condizioni sono cambiate e il Bangladesh oppone resistenza per evitare un’altra invasione di profughi in un Paese dove povertà e sovrappopolazione sono due costanti. La gente resta dunque intrappolata nella no man’s land tra i due Paesi mentre il flusso alla frontiera non si arresta.

Il segretario generale dell’Onu Guterres esprime «seria preoccupazione» ma le sue parole servono a poco. La sua preoccupazione in compenso si è tradotta nello stop all’agenzia con sede a Roma che distribuisce gli aiuti alimentari ai rohingya in Myanmar, la cui popolazione sfollata internamente ha raggiunto quota 250mila, la metà dei quali vive in campi allestiti per dar loro rifugio dal 2012 (quando si scatenò una campagna che vide distruzioni e violenze in diverse aree musulmane del Paese).

Nell’ottobre del 2016, a seguito di nuove violenze, i militari vietarono alle agenzie umanitarie di intervenire dando così la stura all’emigrazione di massa.

Secondo Al Jazeera, il Pam è stato accusato dal governo di aver fornito razioni alimentari poi finite nelle mani dei ribelli e dello stesso tenore sono state le accuse verso altre agenzie umanitarie.

Come il caso italiano ben dimostra, quando i piani di un governo violano le regole elementari del diritto, parte sempre una campagna che demonizza Ong e organizzazioni umanitarie, colpevoli di essere neutrali e di assistere chi ha bisogno senza fare domande.

A volte però succedono anche cose in controtendenza. Se è vero che il governo di Dacca sta cercando di porre un freno all’immigrazione di nuovi sfollati, un corrispondente della Bbc da Cox Bazar, la città al confine dove ha sede il Comitato che si occupa dei rifugiati, sostiene che la polizia bangladese sta in parte ignorando gli ordini che vengono dall’alto e chiude un occhio quando vede la gente in fuga passare la frontiera.

Può anche darsi che il Bangladesh tenga due posizioni: una ufficiale, l’altra – nascosta – umanitaria. Un Paese disastrato dalle piogge alluvionali, dove vivono 1145 persone per chilometro quadrato e dove il reddito medio è di 160 dollari al mese, dà una lezione di civiltà, accogliendo non senza difficoltà chi scappa dalla guerra.

Nei suoi campi profughi alloggiano decine di migliaia di sfollati e nel Paese i rohingya sono ormai almeno mezzo milione, arrivati a ondate successive.

Intanto si aspetta la visita del premier indiano Modi in Myanmar. Si parlerà dei rohingya. L’India ne vuole espellere 40mila. Difficile che Naypyidaw li voglia indietro.