I bulli sauditi prima aggrediscono il debole vicino e poi minacciano l’insegnante che ha osato redarguirli: quanto successo al Palazzo di Vetro pare incredibile, se si dimentica per un attimo l’impunità devastante di cui gode Riyadh. Ad uscirne con le ossa rotte è il segretario generale Ban Ki-moon, ma anche la già scarsa credibilità delle Nazioni Unite.

Lunedì l’Onu aveva inserito nella lista nera dei gruppi che violano i diritti dei bambini la coalizione sunnita anti-Houthi che massacra lo Yemen da marzo 2015: è responsabile – ha scritto nel suo rapporto annuale – del 60% dei 1.953 bambini uccisi e feriti in un anno e due mesi di guerra. Ovvero le bombe saudite hanno ammazzato 510 minori e ne hanno feriti 667.

Immediata l’ira di Riyadh, sostenuta dagli alleati regionali: l’ufficio del segretario generale è stato bombardato di telefonate di minacce da tutto il Golfo e dall’Organizzazione della Cooperazione Islamica: «Bullismo e pressioni. Un vero ricatto», dice una fonte interna. L’Arabia Saudita ha minacciato di tagliare i fondi alle agenzie Onu, in particolare i 100 milioni di dollari l’anno all’Unrwa (agenzia per i rifugiati palestinesi, in perenne crisi) se non si fosse messa una pezza. E la pezza è stata cucita sullo strappo: martedì il portavoce di Ban Ki-moon ha annunciato il depennamento dalla lista nera della coalizione e la revisione del rapporto. Insomma ne negozierà uno “pulito”, lontano da una realtà fatta di raid su ospedali, scuole e case.

Nella black list restano invece i ribelli Houthi, etichettati da cinque anni come violatori seriali dei diritti dei bambini e, secondo lo stesso rapporto, responsabili del 20% delle vittime minorenni del conflitto yemenita. Ma il passo indietro dell’Onu non poteva passare inosservato: sporca l’ultimo anno di mandato di Ban Ki-moon e provoca la rabbia delle organizzazioni internazionali. «È un esempio estremo del perché l’Onu debba combattere per i diritti umani e i propri principi – ha detto Richard Bennett, rappresentante di Amnesty International al Palazzo di Vetro – Altrimenti diventerà parte del problema invece che della soluzione». Parole di fuoco anche da Human Rights Watch che parla di «manipolazione politica».

L’Onu si arrampica sugli specchi definendo la cancellazione temporanea. Ma Riyadh non teme le Nazioni Unite e precisa che l’eliminazione dalla lista nera è «irreversibile e incondizionata». Dopotutto c’è un precedente: Ban Ki-moon ha già ceduto a pressioni simili da parte di Usa e Israele nel 2014 quando Tel Aviv rischiò di finire nella stessa black list per l’operazione “Margine Protettivo” contro Gaza.

Ai bambini yemeniti viene così tolto anche lo scudo di facciata del diritto internazionale. Eppure, come spesso accade, sono le prime vittime: 320mila soffrono per malnutrizione, centinaia di migliaia sono rifugiati all’estero o sfollati nel paese e in centinaia sono stati reclutati come soldati sia dagli Houthi che dal governo. Martedì la coalizione ha riconsegnato al governo, suo alleato, 52 bambini catturati al confine mentre sotterravano mine con i ribelli.

Una situazione simile a quella irachena: i bambini si trasformano in soldati come accadeva per “i cuccioli di leone di Saddam”. A reclutarli è l’Isis ma anche le milizie sciite (l’esercito iracheno per legge non può arruolare minorenni). Molti sono orfani, in un paese che vive una guerra ininterrotta da oltre trent’anni e dove il governo ha a disposizione solo 22 orfanotrofi, lasciando fuori migliaia di bambini senza famiglia. Alcune delle loro voci sono state raccolte da al-Jazeera, come quella di Karrar, 15 anni: «Ho combattuto per liberare Tikrit e Baiji. E continuerò a combattere fino a quando non riavremo indietro la terra presa da Daesh. La mia età non conta: sono un combattente».