Quando il chiodo sia stato divelto non è dato di sapere. Ma che fosse piantato ben saldo nel marmo del portale d’ingresso di Sant’Angelo a Segno è cosa certa. Lo testimoniano cronache antiche, lo ricorda una lapide. Il chiodo, il Segno, testimoniava che in quel punto di Napoli, oggi via dei Tribunali 45, Decumano Maggiore, sant’Agnello abate aveva fermato i Longobardi nel 581, armato soltanto del vessillo della Croce. Cinque secoli dopo, dal 1027 al 1029, la città conobbe un’occupazione longobarda tanto fugace quanto inutile. Terzo legame con le genti che nel 568, al comando di Alboino, arrivarono in Italia e diedero vita a un grande regno indipendente, sono le Catacombe di San Gennaro a Capodimonte. Troppo esili parrebbero comunque questi fili in una Napoli roccaforte dell’impero bizantino, per giustificare qui la presenza della grande mostra ‘Longobardi. Un popolo che cambia la storia’, in corso presso il Museo Archeologico Nazionale (MANN). La sua migrazione da Pavia, capitale longobarda, poggia invece su motivazioni storiche ben precise e su una nuova visione del ruolo dei musei, riassunte dal Paolo Giulierini, che del MANN è direttore «L’avvento dell’autonomia dei musei ha portato da una parte all’enfatizzazione del loro ruolo, dall’altra a una connessione viva con il territorio. Il Museo Archeologico di Napoli è il tempio della classicità, dell’archeologia romana e delle vestigie di Pompei. La decisione di uno scarto scientifico è scaturita dalla volontà di offrire una visione completa della cultura della Campania, come altre regioni italiane attraversata da molte civiltà. Partendo dal patrimonio della mostra pavese e da alcune collezioni tardo antiche del museo mai mostrate al pubblico, il percorso arriva ai ducati di Benevento, Capua e Salerno, che costituirono la Longobardia Minor. Questo significa che una mostra non nasce e non muore in sé stessa, ma lascia tracce permanenti. Nello specifico una serie di itinerari sul territorio, illustrati da un’apposita guida proposta ai visitatori». Il tessuto narrativo si intreccia nelle sale adiacenti il Salone della Meridiana, riaperte lo scorso anno dopo tre decenni, e ripropone le otto sezioni allestite a Pavia: Il VI secolo: Goti, Franchi e Longobardi in Pannonia; Verso l’aldilà: la cultura tradizionale dei Longobardi; L’economia e l’insediamento; Culto e potere; La scrittura. Sculture ed epigrafi; L’Italia nell’Europa dell’Impero Carolingio e i codici manoscritti; La Longobardia meridionale: la terra delle capitali; La Longobardia meridionale: la terra dei monasteri. Il patrimonio espositivo ammonta a più di trecento opere provenienti da un’ottantina di musei ed enti prestatori. Meravigliosi i cinquantotto corredi funerari completi, che l’allestimento degli spazi, asciutto ed essenziale, riesce ancor più a valorizzare. Il Regno Longobardo fu messo in ginocchio da Carlo Magno nel 774, artefice dell’immenso impero Carolingio, unico superstite il Ducato di Benevento, stato autonomo fino alla seconda metà dell’XI secolo. In mezzo millennio, da Nord a Sud della penisola, sovrani quali Agilulfo, Astolfo, Desiderio, Liutprando, Rotari (nomi familiari, ma dei quali conserviamo appena vaghe nozioni scolastiche) costruirono modelli sociali, politici, culturali, rituali, che tolgono al sostantivo barbaro qualsiasi accezione spregiativa. Basteranno a darne esempio i gioielli rivenuti nelle sepolture femminili di Torino Lingotto e di Parma Borgo della Posta, le armi della tomba del Guerriero di Lucca Santa Giulia, il pluteo (balaustra) con agnello, il corno potorio in vetro blu dalla marchigiana Castel Trosino, la spada con impugnatura decorata in oro dalla tomba 1 della necropoli di Nocera Umbra. E ancora in tema di riti funebri, le fosse di Povegliano Veronese, ma anche di Campochiaro, Molise, dove, accanto al cavaliere vennero inumati il suo destriero decapitato e due cani. Appunti di percorso che si infittiscono arrivando alle due sezioni finali della Longobardia Minor, cui i reperti di San Vincenzo al Volturno, uno dei più importanti complessi monastici longobardi nel nostro Meridione, hanno portato nuovi contributi. A San Vincenzo appartengono le epigrafi funerarie dei monaci Maio e Almo, prima metà del IX secolo, e la vetratina a pannelli policromi con la parte superiore di una figura di Cristo. Sempre dell’XI secolo e sempre da Venafro è il maestoso pannello dipinto, sei metri e cinquantasette centimetri di lunghezza, oltre mille e duecento frammenti a comporlo, raffigurante il Tema dei Profeti. Candidi e intatti sono i marmi con il cavallo alato e i cavalli (Museo Correale di Terranova di Pollino); la lastra dei grifoni e L’Arco di ciborio con bovino e leone, dall’Antiquarium di Cimitile della diocesi di Nola. La Biblioteca Nazionale di Napoli ha prestato preziosi codici quali il Codice Virgiliano con scrittura beneventana, che contiene una poesia anonima dedicata al poeta un tempo sepolto a Napoli, e il Codice delle Leggi Longobarde, 1005, con l’Origo gentis Langobardorum, arricchito da miniature. Tesoro della Cappella Palatina di Salerno, il frammento di epigrafe del Titolus di Arechi II riporta il nome del duca e poi principe che fondò la città. Lì, nell’Opulenta Salernum, vi porta poco oltre una pagina di viaggio colma di ammirazione e disarmato stupore. Leggere per partire. Inevitabilmente.

Opulenta Salernum capitale della bellezza

Pezzo Salerno

di L.D.S.

Inutile tentare eroiche imprese. Lo comprese subito Arechi II, duca di Benevento, alla notizia che Pavia, capitale del Regno Longobardo, era caduta sotto i colpi degli eserciti di Carlo Magno. In quello stesso anno, il 774, Spoleto, che con Benevento costituiva la Langobardia Minor, si sottomise ai Franchi. Per evitare identica sorte, Arechi giocò di diplomazia su un triplice fronte: i nuovi padroni, l’impero bizantino e il papato. Ben gliene incolse, visto che riuscì a garantire ai suoi successori tre secoli di autonomia. Assunto il titolo di principe, regnò fino alla morte, nel 787. I trent’anni del suo potere furono segnati soprattutto dalla scelta di eleggere Salerno a seconda capitale, rango che Arechi volle ribadire costruendovi un castello in cima al Monte Bonadies e il palazzo governativo. Cinquant’anni dopo, la disputa per il trono del Principato fra Radelchi e Siconolfo si risolse a favore di quest’ultimo. Siconolfo fece di Salerno la capitale, e nell’849 la sede riconosciuta di uno stato autonomo da Benevento. L’età aurea della Opulenta Salernum, dizione coniata sulle monete della zecca cittadina, declinò il suo corso sotto Guaimario IV, nella prima metà dell’anno Mille. Durò poco, perché al pericolo delle incursioni saracene e alle lotte intestine, Guaimario fu assassinato nel 1052, si aggiunse la minaccia normanna. Il successore di Guimario, Gisulfo II, dovette affrontare l’assedio condotto da Roberto il Guiscardo. Guerra tra cognati, poiché Roberto aveva astutamente sposato Sichelgaita, sorella di Gisulfo. Era il 1076, al termine di sette lunghi mesi l’Opulenta si arrese per fame. L’ultimo principe fu accolto da papa Gregorio VII e morì nel castello di Sarno. Ciò che di buono gli uomini hanno fatto in passato rimane e si riflette nella bellezza dei monumenti. Tante le prove che Salerno può dare di questa affermazione, non soltanto dentro i confini del suo centro storico. Ed è proprio la bellezza che suggerisce un taccuino di viaggio compilato senza troppo badare a ferree topografie urbane. L’Orto Magno, porzione orientale della città, vide l’insediamento di un monastero benedettino. La comunità religiosa gettò i semi della cultura scientifica da cui nacque la Scuola Medica Salernitana, fondata un secolo dopo. Presso la Scuola, che assommava le conoscenze della tradizione greco – latina, araba ed ebraica, praticavano e insegnavano anche le donne, passate alla storia come Mulieres Salernitanae. La chiesa di San Benedetto, longobarda come la vicina San Michele, è legata alla figura di Pietro Barliario, alchimista del X secolo cui il popolo attribuì, fra i tanti, il miracolo di aver costruito in una sola notte, con manodopera satanica, l’acquedotto di via Arce. La medicina delle spezierie e dei preparati delle farmacie monastiche si ritrova nella zona del Plaium Montis, alle pendici del Monte Bonadies, dove Guaiferio, principe dall’861 all’880, fece costruire Palazzo San Massimo. Il Plaium era caratterizzato da terrazzamenti, canalizzazioni idriche, stabilimenti termali. La Porta Ronca residuo della cinta muraria difensiva, il convento di San Lorenzo fondato nel 976 da Gisulfo I, la Torre dei Ladri, sono le memorie longobarde del Rione Madonna delle Grazie. Dal Rione Canalone, siamo ancora ai piedi del Monte Bonadies, si sale al castello di Arechi II. La fortificazione rappresentava il vertice di un sistema difensivo triangolare longobardo, irrobustito tramite la soprelevazione e l’ampliamento delle mura. Dai trecento metri del Monte, il panorama è ovviamente impagabile. In un gioco continuo di rimandi, il Rione Fornelle, con gli splendidi Giardini della Minerva, torna a evocare la Scuola Medica. Antesignani degli orti botanici, i giardini furono usati per istruire gli studenti sulle cure a base di erbe e piante officinali. Se nel Rione Duomo, all’interno della cattedrale, trionfano autentici capolavori dell’arte bizantina, è il Rione Corte a custodire il massimo monumento longobardo salernitano, San Pietro a Corte. Ma prima infilatevi nel vicolo, cieco, San Bonasio, colorato di murales dedicati al poeta Alfonso Gatto, protagonista dell’Ermetismo e nato a Salerno nel 1909. Altri murales in tema li troverete tra le vie del Rione Fornelle. Il complesso di San Pietro disegna un percorso archeologico che inizia dalle terme romane del II secolo. Nel V, il frigidarium divenne luogo di culto e cimitero paleocristiano. Su queste fondamenta, Arechi realizzò il palazzo del governo. Dell’imponente struttura rimangono l’edificio della Cappella Palatina, accanto alla chiesa di Santo Stefano, e una serie di arcate rette da colonne con capitelli, in via della Dogana Vecchia. Detto così sembra poca cosa, ma la visita ‘dal vero’ svela gli interventi successivi, di impronta normanna, sveva, rinascimentale e barocca. Arrivati a noi nonostante il degrado sofferto più volte da San Pietro. A proposito del palazzo, il Chronicon Salernitanum, cronaca anonima redatta forse nel 990, racconta che durante i lavori fu rinvenuta un’immagine sacra in oro, poi fusa per ricavarne le decorazioni degli ambienti. La verità della storia ha sempre bisogno di una leggenda.

Sulle tracce di San Gennaro

Terzo pezzo

di L. D.S.

Gli itinerari fuori mostra proposti dal Museo e dalla Regione Campania toccano anche tre luoghi di Napoli legati alla figura di san Gennaro. Che c’entra, viene da dire, il santo della famosa ampolla, con i Longobardi? Presto spiegato. Gennaro fu decapitato a Pozzuoli il 19 settembre del 305. Intorno al 431, il vescovo Giovanni II decise di traslarne le spoglie nelle catacombe di Capodimonte, ponendole in un cubicolo al livello inferiore del complesso sepolcrale. Che da allora prese il nome del santo. Nell’831, Sicone I, principe di Benevento, durante l’assedio alla città partenopea, trafugò le reliquie e le portò nella propria sede episcopale. Rimasero lì fino al XII secolo, quando furono trasportate nell’abbazia di Montevergine, a Mercogliano, provincia di Avellino. Tornarono a Napoli tre secoli dopo. Dunque è dalle catacombe che si deve cominciare, varcando l’ingresso di via Capodimonte 13, 081 7443714. Se oggi sono accessibili, lo si deve alla Cooperativa La Paranza, fondata nel 2006, che, nel 2008, vincendo il bando storico-artistico di Fondazione con il Sud, ha avviato il recupero e ha preso in gestione il sito. Nata nel Rione Sanità, dove termina l’itinerario ipogeo, La Paranza ha tessuto qui una rete di piccole cooperative e artigiani, confluita il 16 dicembre del 2014 nella Fondazione San Gennaro. Sono i ragazzi della Sanità, molto preparati e motivati, a guidare dentro un universo sotterraneo di sei chilometri quadrati, articolato su due livelli. Il vestibolo inferiore, II secolo, era in origine un’area funeraria pagana divenuta cimitero cristiano nel III, la stessa epoca del vestibolo superiore. Le luci disposte con efficace resa scenografica illuminano la pietra lavorata, gli affreschi, i frammenti di mosaici, le colonne della basilica, i corridoi che sembrano comporre le navate di una chiesa. Le ombre in cui si perde il labirinto di loculi conferiscono all’insieme un’impronta di misticismo e mistero. Davvero magnifico. Secondo appuntamento il Tesoro di san Gennaro, nell’omonima cappella, che annovera gioielli, argenti e dipinti, realizzati dalla metà del ’500 al ’700. Sconosciuta e nascosta è la storia di un quadro della chiesa di Santa Maria delle Anime del Purgatorio ad Arco, in via dei Tribunali 39, purgatorioadarco.it. L’opera seicentesca, collocata all’interno dell’Oratorio dell’Immacolata, è attribuita da alcuni a Giovanni Balducci. Le sue malandate condizioni, mancano i finanziamenti per il restauro, consentono tuttavia di leggere la scena, che rappresenta Sant’Aniello con in pugno lo stendardo della Croce, mentre ferma non i longobardi, bensì i saraceni. Infedeli, a quei tempi, più minacciosi che mai. Il Santo è uno dei sette compatroni di Napoli. In fatto di provvidenza, melius abundare quam deficere. Ne avrete conferma visitando i locali sotto la chiesa, dedicati al culto delle ‘anime pezzentelle’, che comporta l’adozione di un teschio. Fatevi raccontare la storia di quello della giovane Lucia, protettrice degli amori infelici.

Mostra

Longobardi. Un popolo che cambia la storia.

Museo Archeologico Nazionale di Napoli, Piazza Museo 18,

fino al 25 marzo. Per informazioni 081 4422149, museoarcheologiconapoli.it

Il catalogo, edito da Skira, 45 euro, è curato da Gian Pietro Brogiolo, Federico Marazzi, curatori anche della mostra, e da Caterina Giostra. Se poco o quasi nulla sapevate del popolo di Alboino, la monumentale opera (oltre cinquecento pagine) colmerà ogni vostra lacuna grazie ai numerosi saggi che introducono ciascun capitolo. L’epopea longobarda viene spiegata e analizzata sotto il profilo storico, politico, economico, religioso, culturale e artistico. Decisamente ricco il repertorio iconografico delle opere esposte a Pavia e Napoli. Tappa finale dei Longobardi l’Ermitage di San Pietroburgo, dove rimarrà fino a giugno

 Spazio bambini

Constata con un sorriso il direttore Giulierini «È uno spazio da cui è più difficile schiodare i genitori che i figli». La mostra riserva infatti un ambiente dedicato ai visitatori più piccoli, con un grande gioco dell’oca riprodotto sul pavimento. Seguendone le abituali regole, i bambini imparano a conoscere vicende, segreti e curiosità della storia longobarda. L’immersione prosegue con attività manuali che consentono di ricostruire oggetti dell’epoca, utilizzando gli stessi materiali e le stesse tecniche. Momento magico è quello dello scavo di un terreno, per scoprire, vestendo i panni dell’archeologo in erba, incredibili reperti. Per informazioni, Servizio Educativo 081 4422273, Coop Culture Numero Scuole 848 082408, edu@coopculture.it

dormire e mangiare

Smorfie e speranzelle

A poche decine di metri dal Mann, via Santa Maria di Costantinopoli 30, il B&B La smorfia è il posto ideale per sonni tranquilli e confortevoli. Aperto di recente in un palazzo d’epoca, dispone di poche camere arredate miscelando antico e moderno. Bagni impeccabili, tv, wi fi, frigobar. La prima colazione si fa in un grazioso bar dall’altra parte della strada. Info@lasmorfiabnb.it, 081 19724110. Buoni e a buon prezzo, in zona, A’Lucianella, piazza San Gaetano, pesce; I due scugnizzi, Via Santa Brigida 49/ 50, anche pizzeria; Osteria da Carmela, via Conte di Ruvo 11/ 12. Raccomandata, in via Speranzella 82, 081 18779221, Quartieri Spagnoli, la Trattoria Speranzella. Cinque tavolini, ambiente minuscolo e curato, cucina napoletana di eccelsa qualità, 25/ 30 euro a testa. Provate lo spettacolare antipasto misto, i paccheri con filetto d’orata, la pasta e fagioli o gli scialatelli alla pescatora, il baccalà in cassuola, la frittura di pesce. Più che una speranzella, una certezza