È una delle misure più controverse tra quelle ideate dal governo, e fa parte di un pacchetto di provvedimenti che somiglia più a un attacco ai disoccupati che alla disoccupazione. Entrato in vigore lunedì, il cosiddetto Help to work – il cui scopo sulla carta sarebbe quello d’incoraggiare i senza lavoro a «darsi da fare» per trovarne uno è, dopo la decurtazione dei sussidi, il fiore all’occhiello della controversainiziativalanciata dal governo di coalizione Tory Lib-dem per «aiutare» i disoccupati.

Secondo le nuove regole, che interesseranno circa 200 mila persone, chi è disoccupato da più di due anni e già iscritto all’attuale Work programme perderà i propri sussidi, a meno che non visiti un ufficio di collocamento (il Job Centre) tutti i giorni anziché una volta a settimana, lavori gratuitamente o frequenti qualche corso di avviamento professionale. Tra le altre attività che il disoccupato dovrebbe abbracciare con entusiasmo figurano la preparazione di pasti, la pulizia e l’assistenza a ospiti in case di riposo e presso enti benefici e di recupero. Il tutto per 30 ore settimanali per un periodo fino a sei mesi, più almeno quattro ore di ricerca di lavoro la settimana. Il sussidio di disoccupazione sarà sospeso per quattro settimane alla prima assenza e per tredici settimane nel caso di una seconda. Questo coniglio non esce dal cilindro del cancelliere George Osborne, ma è un ben noto (fu introdotto da Nixon negli Stati Uniti) provvedimento alternativo detto

workfare (dove work sostituisce il well di welfare) e da noi è meglio noto come «lavoro socialmente utile». Una definizione benigna per qualcosa che, una volta cambiato l’angolo di visuale, appare nella sua reale entità di lavoro forzato e non retribuito.

Benché il ministro del lavoro McVey si affanni a definirle non punitive, il sottotesto di vendetta traspare, nei confronti degli «scrocconi», figure demonizzate la cui incidenza reale è stata gonfiata da un’implacabile campagna mediatica che vede i tabloid (tranne il Daily Mirror, tradizionalmente filo-Labour) in prima linea. Il Paese è convinto che molti disoccupati se la spassino a sbafo delle fatiche del virtuoso contribuente. Ecco perché a prescindere dalla sua reale efficacia, il programma gode dibuon consenso presso un’opinione pubblica già «cucinata» a dovere. A poco è valsa la levata di scudi della maggior parte degli enti benefici che avrebbero dovuto avvalersi di buon grado della manodopera gratuita regalata loro dal governo e che tuttavia ne hanno rigettato il sostrato politico e culturale.