A Londra per un incontro con il primo ministro inglese David Cameron, ieri Matteo Renzi ha chiarito la funzione del decreto Poletti che cancella la causale dei contratti a termine per tre anni (36 mesi), aumenterà il turn-over dei precari a disposizione delle imprese e prolungherà i contratti esistenti in scadenza, praticamente una sanatoria. Riferendosi ai dati Istat sul tasso di disoccupazione che a febbraio si è attestato al record dal 1977 del 13%, Renzi li ha definiti «sconvolgenti» e ha detto che il governo è impegnato a riportarlo sotto il 10%: «Nei prossimi mesi e anni l’obiettivo è tornare ad una disoccupazione a una sola cifra».

Nell’alluvione di affermazioni con le quali il presidente del Consiglio ama accompagnare gli annunci delle sue riforme, quest’ultima offre qualche spunto di riflessione. Innanzitutto attesta che Renzi non ha ben compreso la prospettiva biennale di aumento della disoccupazione tra il 2014 e il 2015, pur in presenza di una crescita contenuta (0,6% nel 2014, 1,1% in discesa per il 2015). Il fenomeno è ormai noto come «jobless recovery», tra i primi a teorizzarlo è stato Pier Carlo padoan quando era capo-economista all’Ocse e oggi condivide da ministro dell’Economia le sorti del governo.

Renzi non sembra preoccuparsi di questa dinamica perché con la liberalizzazione dei contratti a termine, cioè la forma contrattuale precaria più diffusa in Italia (oltre l’80% delle nuove assunzioni a termine) intende truccare le statistiche sull’occupazione, seguendo l’esempio del governo inglese con i «contratti a zero ore». Sono più di un milione, ma le cifre esatte non sono conosciute, visto che per loro natura questi contratti sono volatili e cambiano sulla base della domanda contingentata delle imprese come nel pubblico. Anche Buckingham Palace li usa. Il compenso non supera i 5 mila euro all’anno (circa 550 euro al mese). Uno scandalo che ha costretto il governo Cameron ad aprire un’indagine nell’agosto scorso.

Il problema è così serio che la Banca d’Inghilterra, come la Fed americana, ha stabilito che non abbasserà i tassi d’interesse finché la disoccupazione non sarà scesa al di sotto del 7%. Gli interessi sui mutui, così come quelli dei prestiti ad un istituto di credito da parte della banca centrale, dipendono dal numero degli occupati. Per questo sono utili i «contratti zero» in Inghilterra: con qualche centinaio di sterline in tasca anche gli inoccupati o i precari dovranno pur spendere qualcosa. Solo che non basterà né per accendere un mutuo, né per pagarsi la spesa.

«Sostengo l’impegno di Matteo per le misure ambiziose – ha detto David Cameron – «Per paesi con grossi debiti non si può allargare l’occupazione allargando la spesa pubblica. Bisogna fare come abbiamo fatto noi, bisogna avere un mercato del lavoro attraente e flessibile».
Questo è anche il progetto del «Jobs Act» con il quale Renzi intende ridurre la disoccupazione di almeno 780 mila unità nei «prossimi mesi o anni». Per riportarla a circa 2 milioni e 520 mila unità (-24% sugli attuali 3,3 milioni di disoccupati) pensa di aumentare il numero dei contratti a termine. Per Renzi questo equivale alle «nuove regole per il mercato del lavoro». A suo avviso, questa riforma corregge la «ricetta sbagliata degli ultimi anni».

In realtà, il «Jobs Act» approfondisce la tendenza in atto. Non produrrà posti «fissi», né occupazione stabile, ma affiderà alla convenienza dei datori di lavoro la scelta di confermare i contrattisti esistenti e assumerne di nuovi. Il decreto Poletti intende cancellare tale obbligo, attribuendo ai datori una libertà che oggi non hanno. Dal governo fanno sapere che la rimodulazione degli attuali 46 contratti precari dovrebbe iniziare tra un anno, nel 2015, permettendo di passare con gradualità dai contratti a termine a quelli «a tutela crescente» fino all’assunzione a tempo indeterminato. Nel frattempo la disoccupazione continuerà ad aumentare e sarà tutta da dimostrare la plausibilità di un simile percorso.

Un progetto che sarà accompagnato dall’impegno ribadito ieri a Londra da Renzi di una riduzione monstre del codice del lavoro: dagli attuali 2100 articoli arrivare ad un codice di 50-60 articoli, scritti immancabilmente in inglese per convincere che gli «investitori stranieri» che in Italia non c’è «burocrazia» – cioè la possibilità del lavoratore di ricorrere ad un giudice contro il licenziamento.