Con il proclama «ungherese» sfoderato martedì durante il congresso dei Tories appena concluso a Birmingham, la neoministra dell’interno Amber Rudd ha provocato un vespaio. Nel tentativo di apparire risoluta nell’accogliere lo scontento per i flussi migratori condensatosi nella Brexit, Rudd ha annunciato che le imprese nazionali saranno tenute a pubblicare liste con i nomi dei propri lavoratori stranieri nei propri libri paga.

Non è un intento esplicitato, ma l’effetto sarà indubbiamente quello di «svergognare» populisticamente business che prediligono – forse non del tutto sorprendentemente – manodopera straniera per indurli a concentrarsi su un’occupazione a base di British jobs for British people.

La pressione dell’ignominiosa etichetta di traditori della patria, unita al timore di dispiacere alla vigilanza ministeriale, dovrebbe senz’altro spingere i datori di lavoro a un comportamento più virtuoso, almeno questo dev’essere stato il disegno della ministra e del suo team.

È evidente che si è trattato di una semi-boutade, da sfoderare davanti alla sparuta – davvero pochi i delegati rispetto al recente congresso Labour – e autocompiaciuta platea della Tory conference. Ma il contraccolpo non ha tardato a farsi sentire. E non solo da sinistra, ovviamente.
Se il Labour di Corbyn l’ha immediatamente definita un’iniziativa «che soffia sul fuoco della xenofobia e dell’odio» e i nazionalisti scozzesi di Nicola Sturgeon «la più sciagurata dimostrazione di politica di destra in tempi recenti», altrettanto caustiche sono le reazioni del mondo dell’imprenditoria nazionale.

La camera di commercio e i rappresentanti del business concentrano le proprie riserve non tanto sul basso livello retributivo alla base della propria scelta di manodopera straniera ma sul problema delle qualifiche.

E lamentano che l’iniziativa della ministra, favorevole al Remain come la premier May, tradisce più preoccupazione per l’Ukip che per la salvaguardia dell’economia nazionale nel mercato unico.

A questo si somma la levata di scudi del mondo della ricerca e dell’istruzione, colpito da un’altra pensata della ministra: l’annuncio di un giro di vite sul flusso di studenti stranieri ed extra-Ue (soggetti a tasse triplicate e dunque vitali per i budget delle università).

Ieri Rudd è accorsa ai microfoni radio della Bbc per staccarsi di dosso l’appiccicosa etichetta di razzista. Ha sottolineato come la proposta si trovi ancora a uno stadio «di consultazione». Ma non è parsa avere risposte concrete sulla carenza cronica di manodopera e qualifiche che i settori pubblico e privato soffrirebbero in caso d’ipotetico raggiungimento di un tasso d’immigrazione zero in una Gran Bretagna a guida Tory.

Significativo il caso della cura degli anziani e dei disabili: il 30% dei lavoratori impiegati in questo settore è di provenienza europea e nei prossimi decenni si verrebbe a creare un buco di più di un milione di badanti.

Nel periodo pre-Brexit la migrazione netta nel paese (differenza fra chi entra e chi esce) ammontava a +372.000 persone (180.000 dall’Ue e 190.000 extra-Ue).

Theresa May le aveva affidato il dicastero più importante, quello degli interni, da lei stessa gestito per anni durante i governi Cameron. Ma la scelta di farsi succedere da Rudd, ex giornalista finanziaria, ex consulente di J.P. Morgan, si sta dimostrando nefasta per la prima ministra.

Già oltremodo discussa per la faccenduola che la vede titolare di conti offshore rivelati dai cosiddetti Bahamas papers – Rudd sta riportando in auge l’etichetta dei Tories che né David Cameron, né Theresa May erano riusciti del tutto a staccare: quella del «nasty party», il partito malvagio.