Da qualche anno Londra dedica spazio alla pittura cinquecentesca in Italia Settentrionale, e non ci si può che rallegrare. La riscoperta di una stagione artistica così cara al mondo anglosassone, per tradizione sia critica che collezionistica, culminata nella monografica su Veronese di Xavier Salomon, è avvenuta anche grazie a un manipolo di studiosi lombardi traslati nella non più «perfida», ma accogliente «Albione».
Ha aperto la strada la raffinata mostra dedicata alla Fuga in Egitto di Tiziano organizzata nel 2012 alla National Gallery di Londra da Antonio Mazzotta, seguita tra il 2014 e il 2015 dalla monografica su Giovan Battista Moroni allestita alla Royal Academy e curata da Simone Facchinetti e Arturo Galansino, i quali adesso, nella stessa sede, firmano un progetto che si presenta più ambizioso.
L’azzeccatissima immagine-guida di In the Age of Giorgione, l’enigmatico e fascinoso Ritratto di giovane di Giorgione oggi a Budapest, conferisce un’idea accattivante dell’esposizione, rivestita di un’allure modaiola se non propriamente nel tema (non stiamo parlando di David Hockney o dell’Abstract Expressionism in cartellone nei prossimi mesi alla RA), almeno nell’allestimento. Essa è infatti scandita in quattro grandi sezioni tematiche: Ritratti, Paesaggio, Opere a carattere devozionale e Ritratti allegorici, radunando un nucleo notevole di capolavori con prestiti importanti come la bellissima Vecchia delle Gallerie veneziane, o il cosiddetto Gattamelata degli Uffizi, o il Ritratto «Terris» di San Diego.
Il catalogo è composto da un saggio di carattere volutamente storiografico, da brevi ma dense introduzioni di taglio critico poste ad apertura delle quattro sezioni, e da schede abbastanza sintetiche, ma pienamente esaustive, che danno conto del rovello attributivo sotteso alla maggior parte delle opere scelte. Un modello di catalogo dall’impostazione in voga alla metà del secolo scorso (a firma integrale dei curatori, schede comprese, di agile consultazione, di efficacia didattica, ma di densa concentrazione critica) che mi pare si possa con un certo beneficio recuperare un buon compromesso tra letteratura artistica, alta divulgazione e costi di produzione che sembra tornare oggi vantaggioso per tutti.
La mostra si apre dunque con la sezione dedicata al ritratto. È qui che i curatori decidono di iniziare a giocare la partita e di illustrare come Giorgione si collochi su un crinale, quello della Maniera moderna, che raccoglie influssi del passato (rappresentato dal presunto Ritratto di Pietro Bembo di Giovanni Bellini) e suggestioni oltramontane (Albrecht Dürer a Venezia nel 1506, documentato da due meravigliosi ritratti di quel momento, quello maschile di Palazzo Rosso a Genova e quello di Burkhard von Speyer della Royal Collection), aprendo, d’altra parte, sul futuro, a rappresentare il quale è convocato il Ritratto di gentiluomo di Tiziano oggi a Washington.
Fin dalla prima sezione si resta impressionati dalla qualità e dalla modernità dei dipinti chiamati in causa, e soprattutto colpiti dall’abilità di uno dei più straordinari seguaci di Giorgione: Giovanni Cariani. Per il pittore di origine bergamasca la mostra diventa uno straordinario trampolino di lancio internazionale: lo vediamo massicciamente rappresentato e quasi sempre al suo meglio. Particolarmente spettacolari appaiono, nella sezione dei Ritratti allegorici, il Ritratto di Giovane donna di Budapest, la bellissima Sant’Agata della National Gallery of Scotland, fino al vertice della Giuditta in collezione Valsecchi. Queste opere del bergamasco sembrano costituire una personale sintesi stilistica del processo innescato dalla pittura di Giorgione, arricchita dalle novità apportate dai suoi due maggiori «creati», Tiziano e Sebastiano del Piombo. Il tasso di modernità delle opere di Cariani è tanto elevato da far pensare istantaneamente al recupero di questa tradizione operato novant’anni più tardi da Caravaggio.
La sezione dedicata al paesaggio appare altrettanto interessante: qui Giorgione, documentato dal bellissimo Tramonto, si contende la palma con Dürer, tradizionalmente considerato l’iniziatore del genere nella sua prima visita a Venezia.
Un leitmotif che accompagna l’intera esposizione è poi l’oscillazione attributiva tra Giorgione e Tiziano. Con grandissima prudenza i curatori hanno infatti utilizzato la formula «attribuito a», anche per dipinti che possono essere considerati a pieno titolo inseriti nel catalogo dell’uno o dell’altro artista.
Per inquadrare il problema delle incertezze attributive Galansino e Facchinetti dichiarano: di Giorgione si sa poco o nulla, gli unici dati sicuri riguardano la morte del pittore, avvenuta nel 1510 a 33 anni nel lazzaretto di Venezia a causa della peste. Sopravvivono solo due dipinti firmati sul retro (uno di essi, il Ritratto «Terris», per l’appunto, in mostra, l’altro la Laura di Vienna), due commissioni certe: una nel 1507, un dipinto per la Sala dell’Udienza in Palazzo Ducale a Venezia (perduto), e l’altra nel 1508 per il celeberrimo Fondaco dei Tedeschi, della cui pittura sopravvive molto poco. Giorgione morì tra pochi oggetti di scarso valore e alla vorace Isabella d’Este che scriveva pregando il suo agente veneziano di accaparrarsi i dipinti lasciati dal pittore, si rispondeva che di quadri non c’era traccia e che chi li possedeva li teneva stretti e non li avrebbe ceduti a nessun costo.
Che si trattasse di un genio della pittura universale, di uno dei paladini della Maniera moderna, lo aveva comunque già colto Giorgio Vasari, che includeva la biografia di Giorgione in entrambe le edizioni delle sue Vite, 1550 e 1568. E proprio tra la prima e la seconda edizione si registrano significative oscillazioni nel riferire alcuni dipinti al pittore di Castelfranco o al giovane Tiziano, come il Cristo portacroce della Scuola Grande di San Rocco, assegnato a Giorgione in entrambe le redazioni delle Vite, ma nella più recente, quella del 1568, attribuito anche a Tiziano, segno che l’artista aretino aveva dimenticato di espungere il primo riferimento a Giorgione, dopo aver mutato opinione. Del resto la collaborazione tra i due doveva essere all’ordine del giorno: Marcantonio Michiel, attento collezionista veneziano, in visita alle principali raccolte della Laguna tra il 1525 e il 1543, individua infatti alcuni quadri redatti a quattro mani dai due artisti, per esempio la splendida Venere di Dresda.
Se dunque effettivamente Giorgione e Tiziano collaborarono e persino Vasari tentennava sul loro catalogo, come pensiamo di cavarcela noi postmoderni? Un grande conoscitore, che postmoderno ancora non era, Bernard Berenson, aveva colto nel segno affermando che ciascuno storico dell’arte si era nel tempo formato un suo proprio Giorgione.
Stando così le cose, la strada imboccata dalla mostra è di presentare pochi dipinti certissimi, e per gli altri mantenere un’estrema prudenza nello sciogliere il quesito attributivo, dando invece conto del dibattito critico.
La questione non è nuova di questi tempi. Nella monografica romana dedicata a Caravaggio nel 2010, ad esempio, per non incorrere nelle more di copie e mercato, il catalogo dell’artista era stato riportato al grado zero: solo dipinti documentati sul piano archivistico, dalle fonti antiche o unanimemente accettati dalla critica. Con i pochi elementi a nostra disposizione, nel caso del pittore veneto si faticherebbe ad arrivare anche a questo. Rinunciare a Giorgione per paura di farcena un’idea scorretta, oppure tentare attraverso un paradigma indiziario di ginzburghiana memoria di giungere a una verità se non certa, per lo meno altamente probabile, come magistralmente fece Alessandro Ballarin in Le Siécle de Titien nel 1993? Con questa domanda di non poco conto i curatori congedano il visitatore, che al termine del percorso ha già deciso da che parte stare: di fronte a tanta bellezza impossibile fermarsi nella ricerca della risposta.