Se una macchina del tempo riuscisse a farci viaggiare nella Swingin’ London del ’68 inevitabilmente le sorprese sarebbero disordinatamente disposte su varie soglie: da una parte l’appassionato troverebbe esattamente quanto si aspetta, un brulicare di pulsioni schiettamente blues e rock, nate sulla primordiale onda dello skiffle e dei tour incalzanti degli allora sconosciuti bluesmen americani doc, con aperture a tutto campo. Rock, rhythm and blues e blues ovunque. Se n’è già parlato su queste pagine. Ma, girovagando per la capitale, l’appassionato dall’orecchio fino avrebbe captato anche un altro ’68 della musica: la nascita del folk rock inglese, più o meno stipato proficuamente delle stesse pulsioni, ansie e botte creative. Psichedelia, blues, ricerca timbrica, e via citando. Tutto atteso? Macché. Il ’68 inglese del folk rock segna una linea di discontinuità totale su come veniva inteso il patrimonio «folk» in Inghilterra. Che era, in quel fascio d’anni, più o meno il residuo fossile di antiche e un po’ legnose attitudini: canto declamato e quasi sempre non accompagnato di oscure vecchie canzoni, con attitudine stentorea e un po’ antiquaria, le chitarre viste ancora come un’eresia. Eppure dall’altra parte dell’oceano un ragazzo dalla voce nasale e pure artatamente «folk» stava mostrando al mondo che si poteva essere «folk» e «popular» al contempo, tenere in conto le radici e le storie orali tramandate di generazione in generazione, e crearci sopra qualcosa di nuovo accompagnandosi con la sei corde. Si chiamava Robert Zimmermann, ma il mondo lo conosce ancora come Bob Dylan.

NUOVI IMPULSI

S’è detto dunque di un orecchio collettivo pronto a captare altri impulsi, a Londra: l’appassionato avrebbe senz’altro sentito strani suoni un po’ folk e un po’ indefinibili scaturire dal posto meno attraente di tutti, e in realtà decisivo per le sorti del ’68 folk rock, il Les Cousins. Un localino seminterrato al 49 di Greek Street, Soho, tenuto aperto da una coppia greca che sopra il luogo davvero «underground» della musica gestiva un ristorante. Per pura bizzarria della sorte, nello stesso palazzo fino a qualche tempo prima c’era stato lo Skiffle Cellar, altro rifugio di gente curiosa per le «altre» musiche, quelle che Lonnie Donegan aveva cominciato a far ascoltare a far data dal ’56, nemmeno dieci anni dopo la fine della seconda guerra mondiale. Roba tosta, a proprio modo: strumenti auto costruiti, schegge di blues e jazz e anche, perché no, qualche recupero dal misterioso patrimonio «folk» inglese riarrangiato e rivisto. Il Les Cousins era la fumosa «tana» dei beat e dei ragazzi londinesi a caccia di emozioni altrettanto estreme e indirettamente «psichedeliche» di quelle che si potevano provare, nel medesimo momento, all’Ufo Club con i primi Pink Floyd o i Soft Machine. Emozioni radicate nel folk, e un po’ oltre. Centocinquanta posti sempre pieni, e oltre, session che duravano tutta la notte. Là sotto c’era una un’enorme ruota di carro sul muro, una rete di pescatore appesa al soffitto, un pianoforte, una sola sparuta presa elettrica per un piccolo palco, un microfono. Il Les Cousins divenne «il» posto dove ascoltare folk music inglese in mutazione genetica da quando, nel 1965, un giovanissimo chitarrista che si chiamava Bert Jansch cominciò ad avere carta bianca per cantare le sue strane ballate, al contempo «tradizionali» e «rock» accompagnandosi con una chitarra dalla bizzarra accordatura, che sfiorava il blues e il jazz degli americani senza mai esserlo veramente. Poi arrivarono Martin Carthy, John Renbourn, Al Stewart, Roy Harper. Ognuno avrebbe avuto un proprio ben definito spicchio di futuro, negli anni a venire: chi più rock, chi più pop, ma sempre con evidenti radici affondate in quel mondo di folk rock nascente che faceva tirar tardi nei locali a una generazione. I locali: dizione al plurale, perche Les Cousins non era l’unica «tana» dei ribelli del neo folk. Una conta dovrebbe forse far conto sulle centinaia di luoghi, non decine. Citeremo dunque il Troubadour in Earl’s Court, dove poi incideranno cose formidabili i Fairport Convention, Phoenix vicino a Leicester Square, lo Student Prince a D’Arblay Street, il particolarissimo Le Macabre in Wardour Street, dove i tavoli erano fatti a forma di bare. Una ragnatela di luoghi piccoli e piccolissimi, dove vigeva la regola del passaparola, dei flyer scambiati di mano in mano, e lentamente, ma, come si suol dire, inesorabilmente, cresce la febbre per quella strana e nuova musica che sapeva di antico senza avere odore di vecchio, e di futuro senza essere indefinita fantascienza.

FEDE ROSSA

Addentriamoci, dunque, nel complesso reticolo, e facendo coincidere il «nord» della bussola con il ’68 londinese del folk rock. La prima tappa ci porta per certi versi fuori strada, rispetto alla nuova onda che farà poi indirizzare la corrente complessiva in tutt’altro modo: il ’68 è l’anno in cui il padre nobile ma scontroso del folk d’Inghilterra, lo scozzese Ewan McColl, al momento cinquantatreenne, incide The Angry Muse. Lui è un comunista duro e puro, senza un’incrinatura, sua moglie è Peggy Seeger, americana, la sorellastra di Pete Seeger l’americano che ha collaborato con Woody Guthrie. Assieme hanno dato vita al Critics Group, fede rossa incrollabile, ma anche parecchia ortodossia. Il parametro estetico era «mantenere le canzoni tradizionali all’interno dei loro contesti sociali e artistici». Di qui, dunque la seriosissima idea di cantare per pubblici scelti, educati e composti, e usando solo la voce, con solo orari e occasionali tocchi strumentali di accompagnamento. Fedeli a un’astratta linea, dunque, ma per nulla in sintonia con quanto poteva sprigionare in energia un Bob Dylan alle prese con una vecchia ballad, trasformata mercurialmente in qualcosa d’altro che sapesse parlare all’oggi della gente. Nel ’68, peraltro, arriva anche dall’Irlanda (ove la «tradizione folk» era tutt’altra cosa viva, rispetto all’Inghilterra) un ottimo disco dai Dubliners, attivi dal ’62. Si intitola Drinkin’ and Courtin’, e già il titolo è buona indicazione di pregi e limiti della sferragliante band da pub: «bere e corteggiare», un orizzonte estetico ed etico piuttosto distante dalle pulsioni psichedeliche del folk rock nuovo che gira attorno. Che invece cominceremo a rintracciare con quelle straordinarie figure di musicisti che sono Shirley Collins e Davey Graham. Partiamo dalla bionda e inafferrabile Shirley Collins, oggi una signora più che ottantenne in gran forma, e nel ’68 trentatreenne con un curriculum artistico e un’esperienza piuttosto fuori dal comune. A cominciare dal fatto che aveva iniziato a far parlare di sé dall’archeologico 1955, e che, soprattutto, il folk inglese lo aveva conosciuto per ricerca diretta sul campo, condotta come giovane assistente di un gigante dell’etnografia musicale Alan Lomax, la stessa figura mitica che avrebbe non poco contribuito alla riscoperta del nostro folk, in giro per la Penisola. Con Lomax Shirley Collins effettua un lungo viaggio di ricerca nel Sud degli Stati Uniti a caccia di antiche canzoni folk arrivate sulle navi dalla vecchia Inghilterra, scoprendo un vero e proprio tesoro di melodie trasferite oltre oceano. Gli effetti si ascolteranno in Sweet England e False True Lovers, entrambi del ’59. Ma Shirley Collins con la sua voce di fragile cristallo e perfetta intonazione guarda con fastidio alle interpretazioni stentoree: e trova un compagno di palco ideale, in un club che si chiama Cecil Sharp House, a partire dal 1963, nel geniale chitarrista Davey Graham. Lui è un freak diciottenne ante litteram che con la chitarra in spalla già girovagava per la Grecia, il Marocco, la Francia. A un certo punto, sulla Costa Azzurra, lo nota perfino Elizabeth Taylor, che se lo porta a suonare in uno dei suoi party esagerati: il ragazzo è bizzarro, ma suona gli arpeggi intricati del fingerpicking come nessun altro. Conosce i raga indiani, il jazz. Frequenta Alexis Corner, guru del british blues. S’è portato dalla Grecia un bouzouki, strumento che introdurrà nel folk, una ventina d’anni prima che Mauro Pagani decida di fare lo stesso con il De André di Crêuza de mä. Assieme Shirley dalla bella voce e Graham firmano un primo disco nel ’64, Folk Routes, New Routes: dunque «strade della gente, strade nuove». Una dichiarazione esplicita che i tempi stanno cambiando, anche per il folk, com’è successo negli Usa. Il ’68 della bella Shirley Collins è in un disco che si intitola The Power of the True Love Knot, dedicato al tema del «nodo d’amore». Accanto ha la sorella Dolly, che arrangia e introduce l’arcano «flauto-organo» del Seicento inglese negli arrangiamenti, con il risultato di dare a questo folk dai contenuti arcaici un futuribile suono fiabesco e quasi psichedelico. Tant’è che alla produzione c’è Joe Boyd, l’uomo dell’Ufo Club già citato, e a suonare viene chiamata una coppia d’oro del nascente folk «psichedelico»: Robin Williamson e Mike Heron, l’ossatura della stupefacente e teatrale creatura folk rock che i ragazzi con i capelli lunghi conoscono già come Incredible String Band. Graham da parte sua nel ’68, dopo aver stabilito l’ossatura del nuovo modo di accompagnare con la chitarra i brani folk se ne esce con Large as Life and Twice as Natural, uno stralunato album contenitore che spazia dal folk inglese al raga rock, così come appreso direttamente da Ravi Shankar e Ali Akbar Khan, dal blues al jazz (Tristano), e iniziando il tutto con una stupefacente versione di Both Sides Now di Joni Mitchell. In studio, al solito, c’è una bella fetta del coevo folk rock e blues rock: John Hiseman e Dick Heckstall Smith dai Colosseum, favoloso gruppo prog jazz, e il contrabbasso monumentale e flessuoso al contempo di Danny Thompson, il Mingus del folk rock inglese in chiave jazzata.

But Two Came By è invece il disco sessantottino di un altro maestro riconosciuto della nuova onda, in perfetta sintonia con Davey Graham: Martin Carthy. Accanto ha Dave Swarbrick, giovane signore dell’arcata violinistica destinato a grandi avventure con i gloriosi Fairport Convention. Anche lui ha iniziato con lo skiffle, e s’è trovato poi a tirar tardi nei locali del nuovo folk. La sua tana è il già citato Troubadour, lui suona come un vecchio maestro, e s’è anche sintonizzato subito sul giro delle nuove accordature. Di sicuro gli americani di passaggio nella fumosa Londra si marcheranno i suoi clamorosi recuperi dalla tradizione: ad esempio Bob Dylan, che su Lord Franklin (poi ripresa magnificamente da John Renbourn) costruirà il suo calco perfetto Bob Dylan’s Dream, e Scarborough Fair, entrata nelle orecchie dell’attento Paul Simon, e rilanciata come successo planetario in duo con Art Garfunkel.

OLTRE LO SKIFFLE

Arrivava dallo skiffle anche un altro grande protagonista della prima ondata folk rock sessantottina, Ralph McTell. In realtà si chiamava May, ma in omaggio a un grande bluesman prese il cognome McTell. Il mondo del rock lo conosce soprattutto per la sua perfetta Streets of London, che conta un paio di centinaia di versioni, del ‘69. Nel ’68 però aveva già inciso un disco semplice e bellissimo, 8 Frames a Second: c’era tutta la malia del blues ad occhieggiare in perfette ballate folk «inglesi» che sembravano arrivare da un altro tempo, e invece erano tutte di composizione. E veniamo ora alle band, ai gruppi che, in qualche caso, hanno saputo durare nel tempo fino a festeggiare saporiti cinquantennali.

Il ’68 è l’anno di debutto per due gruppi fondamentali del folk rock: i Pentangle e i Fairport Convention. L’ossatura del «pentagono» viene fuori da un progetto di un paio d’anni prima dei due chitarristi della futura band, Bert Jansch e John Renbourn. Jansch, scozzese, è nel quartiere di Soho nel ’64 quando la scena ribolle di club e con certi, una notte dopo l’altra. Anche Jansch è un giovane virtuoso della chitarra, e con Davey Graham discute di accordature particolari e trucchi per arricchire l’accompagnamento. Il terreno d’intesa, all’inizio, è sempre quello: il blues americano, finalmente conosciuto di prima mano dai maestri neri. Poi la folgorazione per il folk dell’Isola, sotto la veste amabile della vocalist Annie Briggs. È un percorso che lo avvicina a quello di John Renbourn, un ragazzone da Kingston innamorato del blues, del rhythm and blues, del jazz.

I Pentangle nascono quando Jansch e Renbourn incrociano piste e passioni musicali variegate con Danny Thompson e Terry Cox, basso e batteria, al momento nel gruppo di blues rock di Alexis Corner. Il quinto lato del poligono musicale arriva con la voce da elfa volitiva di Jacqui McShee: partecipano al John Peel Show, vetrina allora di tutto quanto faceva tendenza in musica, in Inghilterra, condotto da un deejay con le orecchie attentissime, ed è un primo lancio significativo. Nel ’68 inanellano due dischi magnifici, dove l’ intarsio contrappuntistico delle sofisticate chitarre di Jansch e Renbourn sostiene la voce suadente di Jacqui, mentre la ritmica si permette una esaltante libertà di movimento che viene dal jazz, orecchie puntate soprattutto sulla lezione di Charles Mingus. Il primo disco porta semplicemente il loro nome, e, incredibilmente, va pure a finire in classifica, mentre infuriano le tempeste elettriche di Hendrix e dei Cream. Il secondo, Sweet Child, è un ambizioso doppio che riporta sia brani in studio, sia parti concertistiche: come diventerà consuetudine del gruppo, si apre senza soluzione di continuità da ballate folk per sola voce a brani mingusiani. Equilibrio azzardato assai, ma pressoché perfetto. E di un’eleganza che riverbera sulle produzioni solistiche dei due maghi della sei corde. Jansch nel ’68 fa uscire Birthday Blues, in pratica i tre quinti dei Pentangle in studio, e con l’aiuto dell’eccellente flautista Ray Warleigh. Blues, ma con tutto il coté folk britannico e jazz che ormai aleggia in ogni approccio. E che porterà Jansch a incorporare nel suo stile anche elementi di musica antica e barocca, un approccio esattamente simmetrico a quanto va maturando il suo alter ego chitarristico Renbourn. Il corpulento chitarrista nel ’68 esce con un disco che già dal titolo evoca un’Inghilterra antica e cortigiana: Sir John Alot of Merrie Englandes Musyk Thyng and Ye Grene Knyghte. Una splendida «invenzione della tradizione».

FRUTTI ACERBI

Non hanno invece ancora un’identità definita nel ’68 i Fairport Convention, oggi ancora attivi e carichi di gloria british folk : il disco d’esordio del ’68 che porta solo il loro nome è ancora il frutto acerbo di una band che suona molto, nel giro dei locali di Soho, ma vive di luce riflessa dall’America, l’America di Dylan e Joni Mitchell e della California. Tant’è che a molti ricordano i Jefferson Airplane. Manca ancora la voce imperiosa di Sandy Denny, che arriverà col secondo disco: la strada è appena tracciata.

Chi invece un percorso ce l’ha già ben assestato, nel ’68, è il gruppo più sbilenco e freak del folk inglese, l’Incredible String Band di Robin Williamson, Mike Heron e Clive Palmer. Quest’ultimo gestore di un club folk a Glasgow, ben presto rapito dal fascino del viaggio in Oriente. Ben tre le svaporate ma splendide creature sonore folk psichedeliche che escono nel ’68: The Hangman’s Beautiful Daughter, Wee Tam, The Big Huge. La tradizione folk inglese va a collidere gioiosamente con gli impianti modali mediorientali, indiani, maghrebini, sitar e tabla incrociano chitarre e violini. Le voci sono sempre a un pelo dalla sfasatura sul «pitch» dell’intonazione. Roba davvero affascinante, per orecchie avide di novità. E leggenda vuole che un gruppo di Liverpool molto, molto noto all’epoca fosse spesso in sala, quando suonava l’Incredibile String Band. Anche dall’hippie folk c’era da prendere ispirazione.