Tutto comincia nel 1977 con il primo singolo “White Riot” e finisce nel 1986 con lo scioglimento. 33 anni dopo i Clash continuano a essere uno dei gruppi più influenti del rock. Con canzoni finite nelle colonne sonore e i titoli di tanti pezzi diventati slogan, strilli di giornale, rubriche, film: “Should I Stay or Should I Go”, “Rock the Casbah”, “London Calling”, “This Is England”. Proprio “London Calling”, splendido doppio album uscito esattamente 40 anni fa, il 14 dicembre 1979, avvierà la trasformazione del gruppo in “classico del rock”. Tutto succede lì. Con quel disco la band supera il ribellismo musicale e lirico che l’aveva contraddistinta agli esordi, incorporando generi intergenerazionali e radiofonicamente appetibili come soul, funk, reggae, jazz, pop e ampliando il proprio ambito compositivo (non più canzoni su Londra e la Gran Bretagna ma sul mondo). Ironicamente proprio Joe Strummer aveva dichiarato agli esordi: “Niente Elvis, Beatles o Rolling Stones nel ’77”. Ora, invece, stavano per entrare nel club. Non che fosse un delitto, e nemmeno una costrizione, era solo un’altra cosa. Un classico.

La copertina di «London Calling» con l’iconica immagine di Paul Simonon che sbatacchia e distrugge il basso

Tra i brani che conferiranno longevità e classicità al gruppo proprio “London Calling”, pezzo che dà il titolo all’album e che non è solo una gemma dal punto di vista puramente musicale, è anche il doloroso documento di una sconfitta politica e culturale del punk come lo avevamo conosciuto. Niente di quello che veniva raccontato nel pezzo prese forma; in particolare rimasero inattuati i propositi di rivolta che il verso più noto del brano prefigurava: Ora che la guerra è stata dichiarata, arriva la battaglia…. Nessuna battaglia. Nel 1979 la lotta di classe vagheggiata dai Clash in quel brano non ci fu, la Thatcher era salda in Parlamento, Sid e Nancy erano morti. Rispetto ad “Anarchy in the Uk” – inno punk dei Sex Pistols pubblicato nel ‘76, in tempi ancora non sospetti, quando l’esito dello scontro (clash) era ancora incerto e anzi si era solo alle prime schermaglie – “London Calling” nasceva già morta, sconfitta in origine; pensata – seppure con la caotica innocenza del rivoltoso mai domato – a posteriori, scritta auspicando un conflitto di cui tutti noi conoscevamo già l’esito. Non solo: il 1979 è anche l’anno dell’estinzione del primo ribellismo punk, segna la trasformazione di quella controcultura in vuoto stile, in moda, popolata da creste colorate e pose finto-incazzose (soprattutto dalle parti di Carnaby Street, a Londra). In sostanza quello è l’anno che prepara il passaggio del punk alla classicità e alla “normalizzazione da classifica” di un intero genere. L’idea dei Clash fu comunque geniale: scrivere un pezzo pensando alla battaglia di Inghilterra del 1940, quando un’intera nazione si ritrovò faccia a faccia con i nazisti e vinse. Nel 1976 – in tempi e modi diversi – uno schiaffo di persone – perlopiù tra i 16 e i 25 anni – si ritrovava, invece, impantanato in una seconda grande depressione e – come genitori e nonni ma sempre in tempi e modi diversi – in un paese sul punto di consegnarsi alle forze della reazione. Lo stesso titolo, “London Calling”, si rifaceva ironicamente a Parla Londra, la serie di messaggi cifrati irradiati da Radio Londra che con i suoi programmi informava le popolazioni europee sullo stato del conflitto con i nazisti durante la seconda guerra mondiale. Appropriandosi di quella frase, Parla Londra, così densa politicamente e così piena di speranze, i Clash ne rovesciavano la premessa originaria trasformandola in un grido di profondo risentimento nei confronti di una generazione che aveva sì sconfitto Hitler ma che – seduta apaticamente sulle glorie di quell’evento – ora stava affogando la Gran Bretagna in un tremendo inverno dello scontento; allo stesso tempo si autoconvincevano che se i genitori e i nonni – da soli – ce l’avevano fatta, anche loro avrebbero potuto avere qualche chance. In soldoni: loro hanno sconfitto il nazismo, noi sconfiggeremo la Thatcher. Sappiamo come è andata; con il primo ministro britannico che trasformerà radicalmente la società inglese introducendo cambiamenti poi istituzionalizzati da Tony Blair. Il fatto poi che i Clash caldeggiassero in “London Calling”, pezzo e album, istanze rivoluzionarie per forza di cose non più realizzabili nel tempo in cui venivano auspicate e di cui loro stessi non potevano non essere consapevoli, ha contribuito a creare un cuscinetto di sicurezza tra testo e momento storico, a disinnescare per sempre il potenziale antagonista di quel pezzo, dei Clash e del punk in genere.

I Clash nel 1979

Di “London Calling” resta comunque un testo che in alcuni tratti continua a parlarci; ci parla quando menziona errori nucleari (un dibattito sempre attualissimo) come quello di Three Mile Island in Pennsylvania (la centrale che nel 1979 subì il più grave incidente mai avvenuto in una centrale nucleare statunitense, con il rilascio di una quantità significativa di radiazioni), ci parla quando racconta di disastri ambientali e di una prossima età del ghiaccio, quando accenna alla brutalità delle forze di polizia e a quella scia di tensioni sociali che negli anni le crescenti crisi economiche hanno scatenato ovunque nel mondo. Ci parla quando menziona il fiume, il Tamigi, che esondando ci inonda non solo d’acqua ma metaforicamente di banalità, conservatorismo, ignoranza. Una considerazione valida ieri come oggi. Ma soprattutto, a 40 anni dall’uscita di “London Calling”, di quella canzone e di quell’album, resta la consapevolezza che fu opera di una band ispirata, musicalmente efficace, in grado di annusare stili e onde di mercato, capace di appropriarsi di suoni “altri da sé” che metabolizzava secondo un tipico “stile Clash”. Un gruppo che – nonostante un ultimo, imbarazzante album (gestito in solitudine da Joe Strummer e da lui stesso misconosciuto) – ebbe la capacità e l’intuito di mollare quando era ancora in tempo per essere considerato credibile e arrabbiato.