C’erano una volta il 28 giugno e la giornata dell’orgoglio omosessuale celebrata da un corteo nazionale per sembrare in tanti. Adesso abbiamo l’onda pride, una catena di eventi di piazza (e non solo) che dura praticamente tutta l’estate e che quest’anno promette di rinfrescare tra i suoi flutti arcobaleno ben 24 città italiane. Lo slogan “we are everywhere” è stato preso alla lettera, dilagando di anno in anno dalle metropoli alla provincia che tuttora, salvo eccezioni, non è troppo accogliente verso i non eterosessuali. L’onda è partita il 27 maggio da Arezzo e chiuderà la stagione il 19 agosto a Gallipoli, affollata capitale queer del Salento. Questo fine settimana tocca alla piazza storica di Roma, ma anche a Pavia e Udine, dove debutta il pride del Friuli Venezia Giulia.

La geografia dei corpi e dei progetti di sé, parallelamente, si è arricchita con il tempo e dal primitivo “gay pride” siamo passati a quello lgbt fino ad arrivare al certamente non esaustivo lgbtqia. Qualcuno si è domandato se ne usciremo vivi, ma questo acronimo babelico ci ricorda solo che ci deve essere più spazio e per tutti. Quando ciascuno sarà veramente libero di esprimere pacificamente come meglio crede la propria identità personale, nel generale rispetto della differenza di tutti, non ci sarà più bisogno di sigle complicate. Perciò sbrighiamoci e pensiamo che le situazioni a volte cambiano molto in fretta, come è accaduto un anno fa con l’entrata in vigore della legge sulle unioni civili. Ovvero il primo sostanziale riconoscimento dei diritti di gay e lesbiche nel nostro paese dopo quasi mezzo secolo di battaglie non infruttuose ma sempre prive di quel carattere di svolta che questo provvedimento ha avuto. Un gradino finalmente solido su cui appoggiarsi per salire ancora, ma solo un gradino.

A suggerire la necessità di passare oltre alla svelta ha pensato la stessa legge sulle unioni civili, mutilata per avere la maggioranza sufficiente ad approvarne almeno una parte, e che persino se fosse stata intera si sarebbe potuta definire incompleta e inadeguata. Le coppie omosessuali possono unirsi ma non sposarsi, il che sarà pure una questione di sottigliezze verbali ma indica la ferma intenzione di mantenere almeno simbolicamente delle distanze che nella pratica non ci sono. Dove poi le coppie omo risultano chiaramente al di sotto di quelle etero è la questione della famiglia. Il parlamento non ha voluto concedere a gay e lesbiche neppure la possibilità di adottare i figli dei propri partner, figuriamoci quelli concepiti da altre persone. Il nodo è che per la politica italiana gli omosessuali non possono essere genitori altrettanto buoni, a prescindere dal fatto che parecchi di loro la famiglia ce l’hanno già ma senza i diritti di quella doc. E fortuna che nei tribunali ci sono, almeno in questo caso, menti un po’più permeabili a standard più avanzati, ma certo non è il massimo della comodità dover perdere un bel po’ di tempo e denaro prima di arrivare da un giudice che ti dica che tuo figlio è tuo figlio. Le sentenze della magistratura stanno di fatto legittimando almeno l’adozione dei figli del partner e si sono dimostrate ricettive anche verso il diritto delle persone transessuali a ottenere la modifica del genere anagrafico senza l’obbligo di cambiare sesso chirurgicamente. E questo sottolinea la negligenza dei legislatori, così come la clamorosa vicenda delle norme contro l’omofobia, che nonostante i ripetuti assalti il parlamento ha sempre respinto, anche nel timore di alcuni che dare del frocio in aula potesse diventare sconveniente. Ultimamente non si usa più, ma anche se la moda è passata le norme contro l’omofobia restano al palo.

Il pride dunque torna in marcia per parlarci di questo, ma sempre con lo stile che lo ha reso una grande festa laica celebrata in metà del pianeta. Ci si diverte e si scherza anche sulle cose serie, marcando le distanze da ogni tipo di integralismo. Il che di questi tempi non è poco.