In Israele come in Europa stiamo vivendo dei tempi bui. «Da noi è più una tragedia territoriale, mentre qui da voi si tratta della tragedia dei profughi», dice Amos Gitai al Maxxi di Roma in occasione della presentazione della sua mostra «Chronicle of an Assassination Foretold», la cronaca di un omicidio annunciato: quello del primo ministro Itzhak Rabin.

Davanti a questi periodi di oscurità, dice il regista israeliano, gli artisti devono interrogarsi su come parlare per e del loro tempo. «Mi ha sempre interessato la presa di posizione degli artisti quando i loro paesi vengono trascinati in simili crisi», osserva Gitai che ha scelto la via del cinema proprio quando, racconta, si è trovato suo malgrado coinvolto nella guerra dello Yom Kippur. «Da ragazzo stavo per seguire le orme di mio padre, che è un architetto. Poi a 23 anni sono stato mandato in guerra: lavoravo su un elicottero di soccorso che è stato abbattuto da un razzo siriano. Così al mio ritorno ho deciso di dedicarmi al cinema come mezzo per pormi le domande necessarie e parlare di un paese che amo e con cui troppo spesso mi trovo in disaccordo». L’arte è infatti anche un compito civile, rispetto al quale secondo Gitai gli artisti europei si stanno rivelando un po’ «deboli, troppo assorbiti da problemi di forma».

La mostra e il suo ultimo film Rabin, the Last Day si confrontano invece con un evento che, a detta di Gitai, «ha decapitato tutte le nostre speranze e i nostri sogni per un diverso Medio Oriente, un evento accaduto 20 anni fa ma le cui conseguenze viviamo ancora oggi e che ha determinato trasformazioni che influenzano le dinamiche del mondo intero». Il progetto è nato circa tre anni fa, quando il regista e il suo gruppo di collaboratori ricorrenti – «io li chiamo il mio Kibbutz privato», dice Gitai – si interrogavano appunto su ciò che li rendeva particolarmente «infelici» del loro paese: «i continui toni razzisti, i tentativi del primo ministro di limitare la libertà di stampa, la chiusura ad Haifa, la mia città, dell’unico teatro arabo. E la sola figura politica che si sia mai veramente opposta a tutto questo ha perso la vita».

Così Gitai decide di interpellare la memoria di quell’uomo – «se gli ebrei non restassero ancorati alla memoria non esisterebbero», scherza – e inizia una ricerca sull’omicidio di Rabin.

La prima persona a cui si rivolge è il Presidente della Corte Suprema, a capo della commissione che indagò sull’assassinio. «Gli ho detto che non aveva fatto un buon lavoro – racconta Gitai – perchè si è occupato di smascherare le falle operative che hanno condotto alla morte di Rabin ma non il violento movimento di opinione che è la vera causa di quella morte. Così lui mi ha chiesto cosa potesse fare, e io gli ho detto di metterci a disposizione tutti i documenti di quella inchiesta».

Così, all’Archivio di Stato di Gerusalemme il regista trova quella che sarebbe stata la fonte principale del suo lavoro: il film come la mostra ma anche una rappresentazione teatrale. «Già in passato ho realizzato delle trilogie, ma questa è verticale – spiega Gitai – prima il film, poi la mostra e infine un’opera teatrale che andrà in scena ad Avignone, con la partecipazione dell’attrice palestinese Hiam Abbas, sul punto di vista della vedova di Rabin».