Fashion Checker è una piattaforma, in continuo aggiornamento, lanciata da Clean Clothes Campaign (in Italia Campagna Abiti Puliti) per fare luce sulle condizioni salariali di chi lavora per i grandi marchi della moda. Sono state analizzate catene di fornitura e pratiche di retribuzione di 108 brand in: Cina, Indonesia, India, Croazia e Ucraina. Salari non dignitosi, divario di stipendio tra uomini e donne e scarsa trasparenza nella filiera. I dati raccolti sono frutto di anni di ricerche, di sondaggi, interviste, analisi di buste paga e provengono da strumenti collaborativi come WikiRate.

AL SONDAGGIO DELLA CAMPAGNA Abiti Puliti ha risposto solo la metà dei marchi italiani della moda. Il 93% dei brand, a livello internazionale, non ha fornito prove concrete degli impegni presi per corrispondere un salario dignitoso a tutti i lavoratori della filiera e più della metà (il 63%) non ha pubblicato dati completi sui fornitori. «Le fasi più oscure sono quelle labour intensive dove serve molta manodopera e proliferano le subforniture: dalla coltivazione al confezionamento fino alla logistica», spiega Deborah Lucchetti, portavoce della Campagna Abiti Puliti.
Trasparenza non è sinonimo di sostenibilità: è lo strumento per verificare gli impegni annunciati. Il primo step è l’adesione al Transparency Pledge, lo standard minimo richiesto da una coalizione di sindacati e organizzazioni per i diritti umani, che valuta il livello di trasparenza di filiera dei brand. Fashion Checker serve ad analizzare il divario tra le dichiarazioni e i fatti.

I MARCHI GARANTISCONO SALARI VIVIVIBILI? Come spiega Deborah Lucchetti, in molti casi la loro risposta è affermativa. Le prime falle emergono quando viene chiesto di dettagliare gli standard adottati per calcolarli. «Le nostre indagini dimostrano che i brand sono distanti dall’adozione di politiche salariali pubbliche e verificabili, ma sono lontani anche dall’applicazione di benchmark credibili per quantificare salari vivibili». Fashion Checker fa pressione sul mondo della moda per garantire un salario vivibile a tutti gli attori della filiera, entro dicembre 2022. Il salario vivibile, nella concezione di Abiti Puliti, è familiare. Deve permettere l’accesso ai diritti fondamentali e garantire il risparmio per il lavoratore e la sua famiglia. In molti paesi i compensi si fermano al di sotto del 60% del salario medio. Non bisogna confondere salario vivibile e minimo salariale, sottolinea la portavoce: «Il salario minimo in alcuni casi è garantito per legge ma è largamente al di sotto del salario vivibile: copre un terzo del fabbisogno di una famiglia». L’80% dei lavoratori nella filiera sono donne, ulteriormente discriminate dal gender gap: salari più bassi, tempi di pagamento più lunghi, assenza di contratti; mancanza di assistenza sanitaria, maternità e pensione. Per questo Abiti Puliti chiede ai marchi di comunicare i salari divisi per genere.

LA PANDEMIA HA EVIDENZIATO le storture del sistema: ordini annullati, imposizione di sconti e tempi di pagamento fortemente dilazionati. Le ricadute sui lavoratori sono state drammatiche: licenziamenti, contrazione dei salari, sospensione degli stipendi e perdita di potere d’acquisto. La Campagna ha dedicato una sezione del sito al comportamento dei marchi durante l’emergenza sanitaria globale. «Abbiamo scritto lettere ai governi e all’Unione Europea perché sensibilizzino le imprese ad adempiere agli obblighi contrattuali, non mettendo in ginocchio i fornitori» spiega Deborah Lucchetti. Spesso i lavoratori colpiti non hanno accesso a reti di sostegno sociale e rischiano di non ricevere nemmeno ciò che spetta loro per il lavoro svolto.

L’IMPATTO SOCIALE NON E’ IL SOLO con cui i grandi marchi devono fare i conti: altrettanto rilevante è la questione ambientale. Proprio ambiente e diritti sono al centro della Strategia ombra della società civile europea. 65 organizzazioni hanno proposto alla Commissione Europea, intenta nello sviluppo della «strategia globale per il settore tessile», una serie di azioni per rendere più sostenibili le catene del valore del mondo del tessile, dell’abbigliamento e delle calzature. Tra le problematiche ambientali individuate ci sono: la linearità della produzione, l’uso di prodotti chimici pericolosi, inquinamento delle acque, sfruttamento intensivo delle risorse, riduzione della biodiversità, emissione di gas serra e produzione di rifiuti.

IN UNO STUDIO PUBBLICATO IN APRILE su Nature Earth & Environment si evidenzia l’impatto ambientale della «fast fashion», la moda veloce e a buon mercato. Gli autori, provenienti da università di Svezia, Finlandia, Gran Bretagna, Stati Uniti e Australia sottolineano come l’industria della moda produca 92 milioni di tonnellate di rifiuti e consumi 79 trilioni di litri d’acqua, ogni anno. Secondo l’articolo la maggior parte degli impatti ambientali si vedono nei paesi di produzione. Sprechi e rifiuti caratterizzano, invece, il mondo intero.

La moda oggi produce il doppio di quanto non facesse prima del 2000 e gran parte dell’invenduto o dei vestiti usati finisce in discarica, negli inceneritori o esportata in altri paesi. Secondo le stime riportate nello studio l’industria della moda produce il 20% dell’inquinamento da fonti industriali delle acque e contribuisce al 35% dell’inquinamento da microplastiche nei mari.

L’IMPATTO AMBIENTALE TOCCA TUTTE le fasi della filiera: dalla produzione alla lavorazione, dalla distribuzione fino allo smaltimento. A questo si aggiunge la struttura globale dell’industria che prevede lavorazioni in paesi molto distanti tra loro. L’inquinamento da prodotti chimici è elevato dove si coltivano fibre naturali e dove non esistono sistemi di depurazione delle acque di scarto delle industrie tessili. L’impatto ambientale dei rifiuti, invece, si genera lungo tutta la filiera.
La strategia ombra suggerisce alla UE di rendere obbligatoria la dovuta diligenza sul rispetto dei diritti umani e dei vincoli ambientali, con rapporti annuali e la pubblicazione dei siti di produzione. Propone di istituire requisiti vincolanti per il design della moda: generare meno rifiuti e inquinamento; implementare una produzione circolare. Ogni capo deve riportare informazioni sulla sua riciclabilità e sull’intera filiera di produzione. L’Unione deve combattere le pratiche commerciali sleali, che possono provocare abusi sul lavoro e danni ambientali.

I GRANDI MARCHI DELLA MODA hanno risposto alla crescente richiesta di sostenibilità e trasparenza con l’adesione a certificazioni, con rapporti di sostenibilità e social audit. Negli anni sono nati anche premi e riconoscimenti per favorire la diffusione di buone pratiche nel settore: la Ellen MacArthur Foundation per l’economia circolare, il Global Change Award di H&M e il Green Carpet Fashion Award dedicato alla sostenibilità della moda e del lusso. Attraverso campagne come Detox, promossa da Greenpeace, e Zero Discharge of Hazardous Chemicals si è puntato sull’eliminazione totale delle sostanze chimiche pericolose.

DI CERTIFICAZIONI ED ETICHETTE ecologiche l’Ecolabel Index ne conta più di un centinaio. «Le certificazioni sono importanti ma non bastano» spiega Deborah Lucchetti. In un report del 2018 dal titolo «La falsa promessa della certificazione» Changing Market Foundation evidenzia come, non solo non abbiano generato maggiore trasparenza ma siano servite da copertura per le aziende. Le etichette ecologiche sono volontarie e certificano solo una piccola parte della catena del valore. Per essere efficaci dovrebbero favorire la trasparenza di tutta la filiera, essere indipendenti, coprire tutto il ciclo di vita di un prodotto e puntare in alto con miglioramenti continui. Anche l’auditing sociale, deputato a controllare il comportamento delle imprese, non è abbastanza. Nel rapporto del 2019 «La foglia di fico della moda: come l’auditing sociale protegge i marchi ai danni dei lavoratori» la Campagna Abiti Puliti evidenzia le falle nei controlli di sicurezza e i collegamenti esistenti tra imprese di auditing, iniziative di conformità sociale e marchi. Nel rapporto vengono analizzati casi specifici di negligenza dell’auditing sociale nei confronti di imprese: dall’incendio della Ali Enterprises in Pakistan, certificata dall’italiana RINA solo un mese prima dell’incidente, al crollo del Rana Plaza.