C’è un racconto di Borges,’La Casa di Asterione’, in cui un giovane e infelice minotauro si muove prigioniero del labirinto. Borges parla attraverso la sua voce. Anche il tuo ‘Giovane Favoloso’ si muove all’inizio nella borgesiana e labirintica biblioteca di Recanati e tu lo filmi spesso attraverso i suoi occhi, che si chiudono e si aprono…

Pensa che proprio ieri ho ritrovato una lista di Super 8 che ho girato da ragazzo, uno di questi si chiama ‘La casa di Asterione’.

C’è una grande ‘empatia’ tra il tuo sguardo e quello di Leopardi. La chiave del film forse è questa ‘addestramento’ di uno sguardo, non a caso nella campagna lui si abbassa e si alza per imparare a ‘vedere’ la linea dell’infinito…

Si legge con amore Leopardi, lui ti spinge all’empatia. Come diceva Garboli non c’è poesia con una tale incandescenza come la sua. E’ questa urgenza, questa fame di vita, che, se tu hai delle corde che possono suonare, toccate dai versi di Leopardi, ecco che la senti con empatia. Questo ha riguardato sia me sia Elio Gerrmano. Nel film abbiamo entrambi sentito questa consonanza, che passa anche per lo sguardo e il corpo. A proposito del vedere in un mio spettacolo di gioventù : Avventure al di là di Thule c’erano degli occhiali che venivano catturati dalla luce di un vetro incrinato e poi frantumato. Poteva sembrare il segno dello sguardo di un ragazzo infelice. Sono empatie che risalgono all’adolescenza, a cui con Leopardi è inevitabile risalire. Per chi conosce questa malinconia, questo perdersi in uno sguardo lontano, ciò fa sì che si ami quella poesia. Ho incontrato in questi anni molte persone che hanno lavorato su Leopardi, e in tutti c’è come una specie di ‘comune malattia’, un sentire che accomuna.

Leopardi diceva che le malattie sono ‘segni di vita’…

Certo. Avendo girato questo film, inevitabilmente rivedo tutti i film che ho fatto in chiave leopardiana. E forse posso andare anche più indietro…

…in una tua filogenesi. Qui è proprio il tuo primo film Morte di un matematico napoletano che ritorna. In quel film l’inquietudine infelice di Caccioppoli viene filmata in un rapporto con i muri tufacei di Napoli, che lui tocca, percorrendo il labirinto mentale della città, e qui il giovane poeta percorre i muri rossastri di mattoni, le pareti della biblioteca: ‘tocca’ quelle muraglie geometriche, quelle linee, come un cieco che agogna a ‘vedere oltre’…Ed entrambi si immergono in uno strano processo in cui poi improvvisamente ‘vedono’…

Si: l’occhio che vede…

La volontà di vedere, di essere finalmente faccia a faccia, non solo con la Natura, ma con il Nulla, nella natura. Non a caso filmi i disturbi ottici che aveva Leopardi, e il suo cercare il ‘punto infinito’ del vedere. E l’aprire gli occhi diventa una allucinazione: è il cadavere di Silvia a sorridere e fissarlo (ho pensato ad Angelica di De Oliveira)

Ci sono diversi momenti in cui lui serra gli occhi e poi li riapre. Per la scena di Silvia morta che apre gli occhi non c’è solo un richiamo di A Silvia, ma anche di altri momenti leopardiani. C’è una poesia, Il Sogno, in cui lui immagina questa fanciulla morta, ai piedi del letto, la rivede seduta e viva. C’è come una persistenza di vita. “Morta non mi parea […] “Vivi” mi disse e ricordanza alcuna serbi di noi [… ] Quando colei teneramente affissi gli occhi negli occhi […] Ella negli occhi pur mi restava e nell’incerto raggio del sol […]”. Anche nei suoi appunti, lui torna continuamente questa immagine della ragazza morta che lo guarda. La scena del film nasce da questa immagine quasi ossessiva.

C’è una cifra nel film in cui la gioia e il dolore, la morte e la vita, si saldano. Sono segni di vita, sintomi del corpo, anche “sintomi” di montaggio della visione…

C’è una questione delicata che comporta il film: noi tutti siamo convinti del fatto che Leopardi fosse infelice perché malato. Questo è il grande luogo comune che va combattuto, contro il quale lo facciamo urlare addirittura. Il film mi ha messo davanti un impegno grande: non ci si può limitare a leggere i suoi versi e dimenticare il suo corpo. Pasolini diceva che il cinema si scrive con pezzi di realtà: in un film allora tu lo vedi, e se lo vedi, vedi anche la sua deformità e il suo corpo malato. Come affrontare questo nodo? Il rapporto tra la sua fame di vita e la prigione del corpo. Questo è stato il grande lavoro insieme a Elio. Questa la ragione per cui nel film si ruota intorno al corpo. Alle sue vibrazioni. Nel rapporto con le donne, ad esempio…

…con le pulsioni del suo corpo, l’impaccio nei bisogni, lo sfogliare il libro di anatomia, il suo “incrinarsi” verso il terreno, come se, lui che correggeva continuamente ciò che scriveva, ‘correggesse’ anche il corpo…

Ci sono infatti molti momenti in cui corregge i suoi scritti: ma si trattava di filmare il corpo della poesia. Grande scommessa: come si fa a filmarlo? Bernardo Bertolucci mi ha detto di avere visto nel film questo corpo della poesia. E’anche la sfida a dire i versi, che non vengono detti fuori campo, se non nella Ginestra, quando ormai il corpo è sfinito…

Tu filmi, come del resto fa Straub-Huillet, la parola ‘in campo’…

Esatto, i versi sono agiti. Quando l’ho immaginato sulla terrazza della Ginestra, l’ho visto da solo a tu per tu con la Natura, con un corpo che si è trasferito quasi totalmente nella Natura. E’ un dialogo che è anche una sfida.

Quando Leopardi parla nel film di “scetticismo della ragione”, sembra di sentire il ‘carattere italiano’ del disincanto e del voler credere alle illusioni, e il film è un “Viaggio in Italia” anche attraverso questo rapporto credenza nel mondo/illusione, e la Natura, la sua potenza, ci appare come un Velo di Maja, una maschera dietro cui c’è l’ineffabile Nulla…

Si, E a Napoli tutto ciò viene sciolto nel primato illusorio: il canto, il teatro, la maschera. Si recita e si canta perché si sa che dietro la maschera non c’è nulla. E a Napoli perciò quello che conta è la maschera. Lui si riconosce nella maschera del ranavuottolo. Leopardi avrebbe potuto anche incontrare un giovane Petito, il grande Pulcinella.

Diventa un arabesco, inquietante e beffardo come Totò…

Si: a Napoli lui diventa un segno. Viene accolto come una maschera, e lui lo accetta, mentre si ribella contro l’immagine convenzionale del poeta triste e malato, che di lui ha il mondo letterario.

Come già in Noi credevamo (dove era in campo la Storia, il ‘credere’, mentre qui c’è la Natura , il ‘sentire’) sembra che nella sceneggiatura si trasferiscano letteralmente, e rossellinianamente, come ‘documento’, le parole di Leopardi, anche del suo epistolario, dei suoi appunti. Ippolita Di Maio ha scritto con te la sceneggiatura, e chiedo a lei che cosa vi ha guidato in questo…

(risponde Ippolita Di Maio) Più che di documento parlerei di prelievo letterario. E’ come se fossimo andati in cerca della sua voce, in tutti quei luoghi scritti in cui allo stato nascente c’era la sua poesia, quindi anche nelle lettere, negli appunti.

Nel titolo del film risuona una frase della Ortese sulla sua visita alla tomba di Leopardi: “Così ho pensato di andare verso la Grotta, in fondo alla quale, in un paese di luce, dorme da cento anni il giovane favoloso”. Un itinerario dal buio alla luce. Nel film c’è un cammino inverso: tu parti da una Recanati inondata di luce. Anche nel Palazzo e nella Biblioteca, entra di continuo la luce dalle finestre aperte, davanti alle quali lui scrive, e poi arrivi al buio di una Napoli immersa nella notte, in una oscurità indistinta, dionisiaca. Dalla geometria di luce al caos orgiastico della Napoli sotterranea. Eppure in quella luce, anche ‘illuministica’, lui è prigioniero e nell’oscurità cosmica finale c’è invece come una liberazione…

Il film si è disposto rispetto a un mio percorso: è come se avessi sempre avuto confidenza con l’Omega napoletano. Leopardi a Napoli risuona da molto tempo dentro di me. Nel 2004 avevo messo in scena in L’Opera Segreta brani di Partitura di Enzo Moscato che riguardavano Leopardi, in forma di monologo, recitato prima da Moscato e poi da Roberto De Francesco (nel film l’unica scena che non attinge direttamente alle parole di Leopardi è quella del Lupanare, che è proprio una scena da Partitura). Sempre di quegli anni è il lavoro filmato su Caravaggio che non era così lontano da quello che divevi: lì c’erano le parole della Ortese e un rapporto di Caravaggio con Napoli, una immersione nella oscurità e nella perdita, dove c’è una rivelazione della tragicità, ma anche della vitalità.

C’è una celebre frase di Longhi a proposito dell’impatto napoletano sul pittore, qualcosa di simile a quello che avrà Leopardi in quella città. In fondo era sempre la Città/Natura. Tutto ciò preesisteva. Andai a Recanati con Ippolita Di Maio, stavamo lavorando insieme a una drammaturgia per la messinscena delle Operette Morali. Rimasi colpito: non mi aspettavo che tutto fosse rimasto intatto nella città, mi è apparsa questa prigione borgesiana, dove c’erano i libri e i mattoni, nella stessa monocromaticità. I libri verticali, i mattoni dei muri orizzontali. Questa luce appunto trascorreva come in un labirinto borgesiano, uno zenith eun aleph.

Mi è apparsa in quella luce l’Alfa di Leopardi. Io fotografo sempre i luoghi intorno ai quali lavorerò, e gli scatti mi accompagnano anche nella scrittura della sceneggiatura. Nelle foto fatte allora c’è proprio questo sentimento. Indovinavo che viaggio poteva aver compiuto Leopardi da quella cittadina dello Stato Pontificio, fin sotto il Vesuvio. Un viaggio fatale e in fondo incredibile. Quando ho visto Recanati mi è apparso il film. E ho intrapreso il viaggio.