Assomma al numero di duemila novecento, fra negativi e diapositive, il fondo fotografico di Francesco Paolo Michetti (1851-1929) che è conservato presso l’Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione della Fototeca Nazionale. Capitò a Lino Pesaro, gallerista e intenditore d’arte, di sorprendersi assai allorché, recatosi nel 1919 a Francavilla presso lo studio del pittore con l’intento di acquisirne qualche opera, Michetti gli mostra l’archivio bene ordinato delle sue fotografie. E gli spiega come vi fossero catalogate sequenze e dettagli di figure e di paesaggi e ambienti, ordinatamente predisposti secondo coerenti assemblaggi opportunamente combinati e ai quali mancava soltanto d’essere realizzati in pittura.

Ci narra quell’incontro Ugo Ojetti, secondo il racconto che a lui ne fece Pesaro: “Michetti lo conduce davanti ad uno schedario con diecimila schede grandi di cartone: ogni cartone ha pochi segni a bistro e a nero. Lo schema di un quadro o di un paesaggio. E in un angolo il numero. Michetti prende una scheda, poi va ad un lungo attaccapanni al quale sono appese migliaia di tele arrotolate e numerate. Ne stacca dal suo gancio quella che porta quel tal numero. La srotola. Vi sono poche pennellate che corrispondono allo schema a nero, e niente altro. Pesaro non capisce. Allora Michetti lo conduce ad un terzo mobile dove, numerate a lettere ordinate, stanno in cassette tutte uguali migliaia di fotografie fatte dallo stesso Michetti. E lì si trova la fotografia con il paesaggio reale e tal volta con le figure che corrispondono ai due suddetti schemi”. Ghiotta testimonianza, da tener a mente quando si considerino gli espedienti tecnici che i pittori approntarono per cavare, dalle pratiche fotografiche, ingegnosi accorgimenti e soluzioni utili al fine di ottener gli opportuni risultati che essi giudicavano inerenti e incrementali alle loro creazioni. Pittura e fotografia, duecento anni, fra un po’, di intrecci fitti e fittamente studiati. Pure Michetti non limitò la sua pratica di fotografo alla funzione ausiliaria di supporto alla sua opera di pittore. Non pochi dei suoi scatti hanno meritato, e da tempo, un riconoscibile posto nella storia della fotografia.

Ne richiamo due. Risalgono entrambi agli anni Novanta dell’Ottocento. Il primo: a Francavilla, sull’arenile cosparso qua e là di sassi il mare si frange con onde gonfie di spuma. Ne restano, più lentamente assorbite, gore effervescenti, mentre l’acqua indietreggia ed intride la sabbia. Si arriccia in volute a cannolo l’onda che subentra e il poco vento le sfrangia appena la cresta. L’ombra di Michetti si staglia in primo piano. Il cappello a larga tesa e un abito che intuisci greve, forse un pastrano, indiziano una mattinata e un sole d’inverno. Far sì che nell’inquadratura venga a collocarsi la sua ombra è un tratto che accomuna alcune fotografie di Michetti. Nelle gradazioni dal bianco al nero, quel grigio della sagoma ben profilata suggerisce l’intenzione di un autoritratto. Escluso lo specchio che restituisce e fissa il connotato d’un volto o d’un corpo, il ricorso alla registrazione della propria ombra vuol essere attestazione di presenza effimera e scelta a lasciare di sé una traccia che potrà, agli altri, risultare anonima. Non così al fotografo al quale richiama ed evoca, forse, la memoria dello stato d’animo vissuto in quel momento.

Anche nel secondo scatto che qui segnalo l’obbiettivo coglie l’ombra di Michetti nel gioco incerto di luce che carezza i tronchi chiari e lisci e attraversa le minute foglie e le infiorescenze flessibili d’un boschetto di gattici, a Pepoli. I gattici, quei pioppi bianchi che nel 1889 canta Giovanni Pascoli col sentimento dello svanire in ombra e dello sfiorire del tempo in dolore: “E vi rivedo, o gattici d’argento,/brulli in questa giornata sementina:/e pigra ancor la nebbia mattutina/sfuma dorata intorno ogni sarmento.//Già vi schiudea le gemme questo vento/che queste foglie gialle ora mulina;/e io che al tempo allor gridai, Cammina,/ora gocciare il pianto in cuor mi sento.//Ora, le nevi inerti sopra i monti,/e le squallide piogge, e le lunghe ire/del rovaio che a notte urta le porte,//e i brevi dì che paiono tramonti/infiniti, e il vanire e lo sfiorire, /e i crisantemi, il fiore della morte”.