Il capitano Anwar Abu Zayd ha esploso ieri i colpi che hanno ucciso due istruttori americani, un sudafricano e, pare, altri cinque militari, mentre negli Stati Uniti Barack Obama si preparava al faccia a faccia con Benyamin Netanyahu, entrambi molto interessati a quanto accade nel regno dell’alleato re Abdallah di Giordania. Ieri sera si cercavano ancora di capire i motivi che hanno spinto Abu Zayd ad aprire il fuoco nella caserma di polizia di Mawqar, alla periferia di Amman. La pista più battuta inevitabilmente è quella politica, di un attentato. La Giordania è ad alto rischio di penetrazione da parte di Daesh, lo Stato islamico, che preme alla porta orientali di un Paese dove sono già forti gruppi di ispirazione salafita, specie nella città di Maan e nelle regioni meridionali. Re Abdallah fa parte della coalizione messa in piedi da Obama lo scorso anno contro l’Isis, con risultati a dir poco modesti. A spingere verso la pista politica è anche il fatto che la sparatoria è coincisa con le commemorazioni delle vittime degli attentati in tre hotel della capitale del 9 novembre 2005 (53 morti e 120 feriti, tra i quali il famos regista siriano Mustafa Akkad) compiuto da militanti dello Stato islamico in Iraq, il gruppo fondato da Abu Musab Zarqawi, dal quale quale è poi nato Daesh, lo Stato islamico in Iraq e in Siria.

 

A Maqwar gli americani finanziano un programma di formazione per forze di sicurezza arabe. Il corso di addestramento è stato istituito nel 2003 e ha coinvolto 53.000 poliziotti iracheni, 8.000 palestinesi e centinaia di altri Paesi. Nel caso dei palestinesi si tratta del programma avviato dal generale Usa Keith Dayton per la formazione delle forze speciali impiegate dall’Autorità Nazionale di Abu Mazen per tenere sotto controllo le città cisgiordane e che sono usate per operazioni speciali, non poche volte in coordinamento con l’esercito israeliano. Con lo stanziamento di centinaia di milioni di dollari gli Stati Uniti in Giordania (come in Turchia) hanno anche addestrato membri del sedicente Esercito libero siriano – la milizia dell’opposizione anti Bashar Assad – dei quali però si sono perdute le tracce appena rientrati in Siria, per ammissione degli stessi comandi militari americani.

 

Barack Obama ieri ha detto di seguire con particolare attenzione gli avvenimenti in Giordania. E altrettanto deve aver fatto Benyamin Netanyahu che ieri, incontrando il presidente americano alla Casa Bianca, per la prima volta in un anno, deve avergli spiegato la sparatoria in Amman come una delle rappresentazioni di quel «Medio Oriente che cambia» al quale fa riferimento da tempo. L’instabilità regionale, la crisi siriana e l’espansione territoriale di Daesh e ora la nuova Intifada, secondo il premier israeliano invitano il suo governo alla prudenza e a congelare eventuali concessioni ai palestinesi. Noi vorremmo ma non possiamo, deve aver spiegato Netanyahu a Obama che prima del suo arrivo a Washington gli aveva chiesto un chiaro impegno a sostegno della soluzione “Due Stati per due popoli”, ossia all’indipendenza palestinese. Impegno che Netanyahu ha ribadito: «Non ho rinunciato alla pace e alla visione di pace con due Stati per due popoli». E mentre lo diceva, il quotidiano israeliano Haaretz riferiva dell’approvazione preliminare in Israele di progetti che prevedono la costruzione di oltre 2.000 case in insediamenti colonici in Cisgiordania nel corso dei prossimi 15 anni, in particolare nella zona ad est di Ramallah. Netanyahu perciò continua a parlare a due voci, una moderata per gli Usa e l’Europa e un’altra per la sua compagine di governo (di estrema destra) e l’opinione pubblica israeliana. Lo scorso marzo, in campagna elettorale, promise una ferma opposizione alla nascita dello Stato di Palestina.

 

In ogni caso le promesse di Netanyahu vanno bene a Barack Obama che negli anni passati, pur conoscendo le ragioni della paralisi delle trattative israelo-palestinesi, non è mai andato allo scontro, preferendo spostare la crisi nei rapporti con il premier israeliano solo sul programma nucleare iraniano e di mettere in campo tentativi velleitari sulla questione palestinese. Tentativi che qualche giorno fa sono sfociati nell’annuncio che l’Amministrazione Usa nei suoi ultimi 12 mesi di mandato non muoverà alcun passo sul terreno israelo-palestinese. Durante i colloqui alla Casa Bianca che si sono protratti oltre i tempi comunicati alla vigilia, Obama e Netanyahu hanno discusso anche di Siria, ovviamente di Iram, e più di tutto dell’intesa per complessivi 50 miliardi di dollari in 10 anni di aiuti militari americani a Israele. Un “risarcimento” per l’accordo sul nucleare iraniano ancora oggi contestato da Tel Aviv.