«Ogni nuova concessione del governo alle Farc è un passo che ci avvicina di più alla tirannia del Venezuela». A parlare così non è un campione di democrazia, ma l’ex presidente colombiano Alvaro Uribe, grande sponsor del paramilarismo. Nel corso della sua lunga carriera, Uribe ha affidato la “soluzione” del cinquantennale conflitto armato non al negoziato, ma agli omicidi mirati e al lucroso business derivato dal Plan Colombia finanziato dagli Usa per la «lotta al terrorismo e al narcotraffico», riuscendo sempre a schivare sia le circostanziate denunce della sinistra colombiana, sia le inchieste della magistratura e le dichiarazioni dei pentiti.

Comprensibile, quindi, che si sia messo di traverso agli accordi con tutto il suo peso, contrastando con ogni mezzo il nuovo corso inaugurato all’Avana dal suo ex ministro della Difesa Manuel Santos. In oltre cinquant’anni di guerriglia, che hanno lasciato un saldo di circa 260.000 morti, 45.000 scomparsi e 6,9 milioni di sfollati, il ruolo dei paramilitari è stato determinante. Secondo le inchieste indipendenti, nonostante la “smobilitazione” ufficiale, i paramilitari hanno solo cambiato etichetta.

Per coprire il fenomeno, i megafoni dell’uribismo cercano di nasconderne la natura politica dietro il termine di “bacrim” (bande criminali). Le organizzazioni popolari denunciano che l’accordo segreto stipulato da Uribe con i capi del paramilitarismo implica la loro assunzione in blocco nei servizi di sicurezza delle grandi multinazionali. Un fenomeno già evidente nelle miniere di carbone a cielo aperto e nelle zone indigene ricche di acqua e risorse. Come abbiamo segnalato di recente, un rapporto pubblicato a giugno del 2014 dalla Ong olandese Pax (“Il lato oscuro del carbone. La violenza paramilitare nella zona mineraria del Cesar tra il 1996 e il 2006”) contiene molte testimonianze sui contatti diretti tra l’impresa Drummon e le Auc (Autefensas Unidas de Colombia).

Tre ex paramilitari che hanno patteggiato la libertà in cambio di confessioni, hanno dichiarato a Pax che in alcuni casi l’impresa ha diretto le azioni del Frente Juan Andrés Alvarez e l’assassinio di tre leader sindacali. Secondo la Ong Somos Defensores, solo nel primo trimestre del 2016, 113 attivisti per i diritti umani hanno subito aggressioni (19 morti e 81 minacce) di questo tipo, in un paese che esporta gran parte della propria energia elettrica quando oltre un milione di persone non usufruisce di adeguato servizio elettrico.

La violenza sociopolitica in Colombia precede il conflitto armato. Data degli anni ’40, quando gli spazi di agibilità democratici vennero chiusi dall’assassinio del popolare leader Jorge Gaitan. Tuttavia, si continua a perpetrare la logica del “nemico interno”. Secondo Somos Defensores, tra il 2010 e il 2016, i sei anni di governo Santos, sono stati uccisi 365 leader sociali, principalmente ad opera di bande paramilitari. Secondo l’ex capo paramilitare Salvatore Mancuso, nelle legislative del 2002 almeno il 35% dei deputati furono eletti con i voti delle zone controllate dal paramilitarismo.

Interessi tutt’ora in piedi e ben patrocinati, che gettano un’ombra sinistra sui patti dell’Avana. Non per niente, le organizzazioni popolari parlano di “post-accordo” e non di “post-conflitto”, nominando così la partita tutta politica che si apre per un cambiamento strutturale: per un’Assemblea costituente che consenta l’apertura di spazi di agibilità democratica in sicurezza per una vera sinistra d’alternativa. Per questo, dopo 12 giorni di sciopero generale e svariati morti, contadini, indigeni e settori popolari hanno raggiunto un accordo in sintonia con i tavoli dell’Avana e ribadito la volontà di vigilare sugli accordi di pace con una mobilitazione permanente. Ma il governo ha risposto arrestando un noto leader, ex guerrigliero dell’Eln (la seconda formazione armata, che sta conducendo a sua volta trattative).

A Cuba, la Celac ha dichiarato l’America latina e i Caraibi «zona di pace»: non «la pace della tomba, ma l’unica pace giusta, che si coniuga alla giustizia sociale», ha affermato di recente il presidente venezuelano Nicolas Maduro, ricordando l’azione determinante di Hugo Chavez per una soluzione politica in Colombia. Molte inchieste indipendenti, suffragate dalle dichiarazioni di pentiti coinvolti nei processi di destabilizzazione in Venezuela, indicano però che l’obiettivo non si raggiungerà con una firma e un protocollo d’intesa. Secondo molti analisti, l’intento di Uribe e dei suoi terminali Usa e latinoamericani è quello di liberare effettivi dal conflitto interno in Colombia per destinarli al controllo e alla destabilizzazione delle zone cruciali del continente. E il Venezuela è ora il primo della lista.