Una città, Stellenbosch che dietro l’aspetto tranquillo e campagnolo nasconde ancora le ombre più oscure dell’apartheid e un delitto raccapricciante che sembra legarla a quanto sta invece avvenendo nella gabbia urbana di Soweto, dove si vive e si muore al ritmo delle droghe sintetiche e delle guerre tra le gang. Questo lo scenario in cui si muovono l’ispettore Albertus Beeslaar e il sergente Johannes Ghaap, bianco il primo, nero il secondo, gli inseparabili protagonisti delle trame poliziesche attraverso le quali Karin Brynard traccia il volto criminale del nuovo Sudafrica.

Fin dal titolo, «I nostri padri» sembra interrogarsi sul fatto che i crimini che vengono commessi oggi in Sudafrica possano rappresentare una sorta di velenosa eredità del periodo dell’apartheid. E che le prime vittime siano proprio le nuove generazioni.
Per il titolo ho pensato all’avvertimento che si legge nell’Antico Testamento sui «peccati dei padri che ricadranno sui figli», e per almeno due generazioni… È evidente come la nostra storia di discriminazioni razziali abbia prodotto una società anormale che ha reso la maggioranza delle persone povere, svantaggiate, umiliate. E arrabbiate. Se a questo si aggiunge che anche dopo la fine dell’apartheid, per molti non è cambiato quasi nulla e che anzi il divario tra ricchi e poveri è cresciuto, su un fondo di assenza di lavoro, scarsa diffusione dell’istruzione e corruzione diffusa, si capisce bene come il Sudafrica rappresenti davvero un terreno fertile per il crimine. Fino al punto che gli stupri, ogni sorta di violenza e un altissimo tasso di omicidi sono diventati la nostra nuova normalità.

Scrivere un noir in Sudafrica significa necessariamente fare i conti con il tragico passato del paese?
In un certo senso penso proprio di sì. Anche se quello rappresenta solo il punto di partenza. Nel caso di questo romanzo, ad esempio, mi sono interrogata su cosa questa eredità di violenza rappresenti per ogni nucleo della nostra società e sul perché dopo 25 anni di libertà, almeno sulla carta, il Sudafrica assomigli ancora a una famiglia violenta e disfunzionale? I «padri» del titolo del libro evocano da questo punto di vista tutti i maschi della nostra «famiglia». Come fratelli e mariti sono violenti. E come padri sono per lo più assenti: oltre il 61% dei bambini sudafricani non ha informazioni sul padre incluse nel proprio certificato di nascita. Viene da chiedersi che fine abbiano fatto gli uomini nella nostra società. L’apartheid era un sistema profondamente patriarcale: uomini che controllavano ogni aspetto della vita, dall’economia alla chiesa. Dopo esserci liberati di quel sistema, i nostri maschi non hanno saputo trovarsi un altro ruolo da svolgere? I poliziotti che combattono il crimine nei miei romanzi, a partire da Beeslaar cercano di essere buoni uomini, vogliono spezzare questa catena dell’ereditarietà della colpa che rimanda inesorabilmente al passato con l’unico mezzo di cui dispongono, quello di fare scelte giuste, di operare per un bene che non è solo individuale, ma anche collettivo.

Nel romanzo, i crimini che hanno luogo a Stellenbosch, considerata la «capitale» dell’identità afrikaner, e a Soweto, la più grande township nera, spesso descritta come uno dei luoghi più pericolosi del paese, finiscono per intrecciarsi…
In effetti, ho cercato di mostrare come malgrado il contrasto sociale, economico e razziale tra questi due luoghi non potrebbe essere più netto, non possono essere davvero separati l’uno dall’altro. All’inizio ho proposto tutti i classici cliché sulla società sudafricana: la città sulla rotta del vino dove sorge la più nota università afrikaner contrapposta ad una Soweto in mano alle gang criminali, e li ho usati per creare curiosità. Poi, come scoprono invece i lettori, pian piano emerge come le apparenze possono essere fuorvianti, fino al punto di non farci più vedere la realtà e i pericoli reali che vi si celano.

La scrittrice sudafricana Karin Brynard

Lei è cresciuta a Stellenbosch, dove vive ancora oggi e scrivete in lingua afrikaans. In questo senso il suo sguardo sembra essere allo stesso tempo «interno» alla cultura bianca e in grado di coglierne le contraddizioni e le derive, proprio come sembra fare il personaggio principale dei suoi romanzi, l’ispettore Beeslaar.
Faccio parte della comunità di lingua afrikaans. Siamo le persone che sono state responsabili dell’apartheid, siamo i discendenti dei coloni europei, dei colonialisti, degli oppressori, degli sfruttatori di terre e uomini, Come vivo questa eredità? Certo, ci faccio i conti tutti i giorni, ma prima nel mio lavoro di giornalista e ora come scrittrice ho capito che dovevo imparare a scavare nella psiche e nella storia che ha espresso la mia «cultura». Come potevo scrivere di «altre persone» se non obbligandomi a conoscere me stessa, a definire senza ambiguità gli elementi sui quali si è costruita la mia comunità? Da scrittrice di noir come avrei potuto indagare la natura del male, se non ne fossi stata consapevole prima di tutto in me stessa? Tutto ciò credo si sia poi tradotto nella figura di Beeslaar che può sembrare un personaggio un po’ anacronistico. È un omone, taglia da giocatore di rugby, che a prima vista potrebbe essere scambiato per il tipico maschio bianco conservatore che se sta seduto da solo in un bar attira intorno a sé i redneck di passaggio. Invece è un poliziotto della vecchia scuola, con un certo candore di fondo e in lui batte il cuore di una persona che ha giurato di servire e proteggere gli individui più vulnerabili, quale che sia il colore della loro pelle o il loro ceto sociale.

Nel suo romanzo precedente, «Terra di sangue» (e/o), affronta il tema dei ricorrenti omicidi nelle fattorie, perlopiù di proprietà di famiglie bianche, che dividono la società sudafricana, con l’estrema destra che parla di un «razzismo dei neri», quando non addirittura di un presunto «genocidio bianco». Anche se, come spiega nel libro, le cose a volte sono molto diverse…
Infatti. La discriminazione razziale durante il regime dell’apartheid era sostenuta dalla legge. Ma questo non è sempre il caso del crimine nel Sudafrica di oggi, come invece sembrano pensare molti estremisti bianchi. Ogni caso va visto per quello che è, non esiste una risposta unitaria per crimini che affondano spesso in motivazioni diverse. Gli omicidi nelle fattorie sono crimini orribili. Facendo delle ricerche per il libro ho viaggiato molto nelle campagne del paese e ho parlato con diversi sopravvissuti, persone che avevano perso familiari come anche lavoranti. La maggior parte delle persone che vengono uccise in questi contesti sono afrikans, anche se tra le vittime si contano talvolta anche dei neri. Sono persone comuni, la maggior parte appartengono al ceto medio, alcuni più in difficoltà economica, altri meno. Per certi versi potrei dire che sono la mia gente. Ma li sto forse tradendo se non mi unisco allo sdegno per la loro sorte? Se sostengo che dovremmo essere altrettanto indignati da tutte le morti violente che si registrano nel paese, dal fatto che il nostro tasso di omicidi è di ben 52 morti violente al giorno e che la maggior parte delle vittime sono nere? Dunque, quei crimini pesano, ma come tutti gli altri.

A differenza di altri autori di noir suoi connazionali, come Deon Meyer o Roger Smith che prediligono gli scenari urbani, lei sembra preferire campagne o deserti, come quello del Kalahari: sono luoghi che rappresentano meglio gli aspetti del Sudafrica che intende analizzare?
Ho trascorso gran parte della mia infanzia nel Kalahari e in piccole città e distretti agricoli. Questo è il primo motivo per il quale adoro scriverne. Inoltre sono convinta che i paesaggi rurali offrano diverse sfide a chi scrive noir perché il palcoscenico che si utilizza è molto più piccolo, ed è più difficile per un personaggio essere anonimo o sparire in mezzo alla folla. Allo stesso tempo sono consapevole del fatto che nelle piccole comunità romanticismo e bellezza convivono con la durezza e spesso con la crudeltà della vita. A differenza di ciò che si potrebbe pensare, i più poveri e i più disperati vivono spesso in zone del genere, dove l’idillio della vita semplice è talvolta straordinariamente fragile e precario. Questo, senza contare che la corruzione che sta lentamente paralizzando la nostra società è più diretto e visibile nelle piccole città che nelle grandi metropoli.

Recentemente è scomparso Johnny Clegg, il musicista che incarnò la lotta all’apartheid. Con la fine del regime razzista che ne è stato di figure come la sua?
Le persone come lui sono ancora tenute nel massimo rispetto, sono felice di dire: amate da tutti. Sono eroi per tutti noi. La loro eredità ci unisce, rimuove i confini storici tra di noi. Li piangiamo insieme. E guardando a loro cerchiamo di costruire ogni giorno un futuro diverso per il nostro paese.