Capitale del XX secolo, New York resta tale in questo primo scorcio del XXI: benché sia stata raccontata, cantata e messa in scena infinite volte, pochi ne hanno scritto meglio di Richard Price, che si è portato dietro in ciascuno dei suoi romanzi e in ogni film che ha scritto l’odore e i suoni del Bronx in cui è cresciuto negli anni cinquanta, quando la Mela non era ancora la roccaforte esclusiva del privilegio. Alla fine degli anni ottanta, prima la «Broken Windows Theory», quella teoria per cui se lasci anche solo una finestra rotta nel quartiere il malcostume il crimine ne approfitteranno, poi la mano pesante di Rudy Giuliani, con la sua «tolleranza zero», iniziarono a ripulire Manhattan: fu allora che Price spostò le sue trame oltre l’Hudson.
Scelse di ambientare nel New Jersey tre dei suoi migliori romanzi, a partire dal capolavoro Clockers (ripubblicato qualche mese fa da Neri Pozza, dopo oltre vent’anni di assenza dalle librerie italiane), e scelse la città di Dempsey, luogo immaginario ma modellato su Newark e Jersey City. A Manhattan i solerti restauratori del decoro urbano spingevano con le cattive maniere i poveri oltre i margini, per offrire alla bella gente un gioiello di città da colonizzare. Ma oltre il fiume, ad appena pochi kilometri di distanza, la cenere nascosta sotto il tappeto era ancora in piena vista: Dempsey, la città-ghetto devastata da povertà e crack, somigliava come una goccia d’acqua alla New York cancellata o nascosta dai crociati della tolleranza zero.
Negli ultimi anni, tuttavia, Price ha passato di nuovo l’Hudson. È tornato a New York, per scoprire cosa ancora si nasconde dietro la smagliante noia glam e la leziosità del chiacchiericcio Sex and the City: prima con l’ambizioso romanzo La vita facile, foto di gruppo del Lower East Side negli anni 2000, e ora con The Whites, in italiano Balene bianche (traduzione di Luca Briasco, Neri Pozza, pp. 399, euro 18.00).
Il romanzo si nasconde dietro il velo sottile della crime-story, proprio come lo scrittore si è nascosto dietro le pseudonimo di Harry Brandt: più un vezzo e un gioco che un reale tentativo di mascheramento: chi ci fosse dietro il nom-de-plume è stato reso noto sin dall’inizio, proprio come sin dalle prime pagine ci si accorge di quanto la crime-story sia in questo caso solo un espediente.
In superficie, la chiave del plot è tra le più classiche e abusate: polizotti che si fanno giustizia da soli, materia da Charles Bronson, il giustiziere della notte. Le «balene bianche» in questione, infatti, sono assassini sfuggiti alla meritata punizione: non delinquenti qualsiasi ma autori di crimini particolarmente ignobili e odiosi. Nella squadra di cui faceva parte il protagonista, Billy Graves, l’unico del gruppo ancora non arrivato alla pensione, ognuno aveva la sua personale «Moby Dick». Tutti erano ossessionati dal loro privato colpevole riuscito a farla franca, e lo restano anche una volta approdati alla pensione: continuano a seguirne i percorsi, insistono nel cercare, pur se in abiti civili, le prove capaci di incastrarli.
Poi, una delle balene finisce accoltellata nella calca delle metropolitana. Il caso va in mano proprio a Graves, e il poliziotto, anche lui a un passo dalla pensione, scopre così che non si tratta della prima «balena bianca» ammazzata. Uno dopo l’altro, i mostri la cui impunità aveva fatto perdere il sonno ai suoi compagni di pattuglia sono incappati in incidenti mortali, oppure sono spariti senza lasciare tracce.
Tuttavia, in questo torvo e bellissimo romanzo nessuno è senza colpa, nessuno può ergersi a emblema della giustizia. The Whites è un romanzo sulla lacerazione che comporta scoprire quanto la vita sia priva di giustizia: può succedere che un criminale rida in faccia ai parenti delle proprie vittime perché la legge non ha saputo o potuto inchiodarlo, ma anche che un ragazzone pieno di vitalità venga falciato in pochi mesi da un male improvviso. E accade, nel romanzo, che una ragazzina si vendichi dello sgarbo di un belloccio dando una informazione falsa, apparentemente innocua, ma che provoca lo sterminio di un’intera famiglia, condannando a una vita di desolazione rabbia e ferocia l’unico scampato. E che una giornalista ambiziosa e promettente dia una notizia senza verificare a sufficienza le fonti, e si giochi così la sua intera esistenza.
Ma nella città notturna che riflette un mondo senza possibile giustizia non è facile tracciare la linea di demarcazione tra colpevoli e innocenti. Balene bianche è un finto romanzo poliziesco che dietro le apparenze mette in scena una concatenazione di dilemmi morali. Del resto, se Richard Price preferisce l’universo slabbrato dei projects a quello levigato dei lofts di lusso, non è perché subisca il fascino punk della povertà e del degrado, ma perché è in quel mondo e su quegli sfondi che esplodono con maggior impatto i conflitti interiori che lo interessano.
Graves lavora nel turno di notte, quando i pochi poliziotti in servizio devono rispondere alle emergenze in tutta la città. È un modo per raccontare la New York non ripulita, distante anni luce dalla cittadella del lusso e del successo a tutti i costi. Però è anche un modo per illustrare il viaggio di Graves nella zona d’ombra interiore che alberga in lui e in tutti i personaggi di questo romanzo, nel quale non a caso Price sfodera tutte le sue doti letterarie, i dialoghi impareggiabili, la capacità descrittiva, un’azione sempre rapida e però mai a scapito della profondità, rinunciando tuttavia per una volta a ogni venatura ironica. In una vicenda tanto oscura e sofferta, stonerebbe.
Anche Billy Graves, a modo suo, è uno che «se l’è scampata». Si porta dentro il peso di aver distrutto esistenze, magari involontariamente. Le sue relazioni, le amicizie e gli affetti che popolano la sua vita, inoltre, fanno sì che, in un certo senso, si trovi contemporaneamente da entrambi i lati della barricata, vicino sia a chi vuole fare giustizia sostituendosi alla legge sia a chi di quella vendetta rischia di finire oggetto. Non significa però che Price ceda alla tentazione facile di identificare vittime e carnefici, spiando nei tratti dei primi un riflesso del ghigno dei secondi.
Nessuno è innocente ma non tutti i colpevoli sono uguali. A fare la differenza non è la gravità della colpa misurata con bilancia da droghiere: è il suo riconoscimento, la consapevolezza del male che si è fatto, la lacerazione della coscienza. È la sofferenza. Le «balene bianche» tormentanto l’animo dei poliziotti alla cui presa sono riusciti a sottrarsi non perché si tratti di colpevoli a piede libero, difficile credere che in decenni di carriera siano stati gli unici, ma perché per amoralità, malvagità o forse solo per stupidità non sono sfiorati da ombra di rimorso. La loro impunità soddisfatta e imperturbata diventa così l’incarnazione intollerabile dell’ingiustizia complessiva del mondo e della vita.
A Billy Graves, che conosce sulla pelle o da vicino la colpa e l’impunità, il rimorso, la vendetta, la furia accecante contro l’ingiustizia di un assasino odioso che se la ride libero e felice, toccherà l’obbligo di emettere la sentenza sugli Ahab col distintivo dell’Nypd. Al lettore quello di giudicare la sua scelta.