Shimon Peres e Benyamin Netanyahu non saranno tra le decine di capi di Stato e di Governo che in Sudafrica daranno l’ultimo saluto a Nelson Mandela. Ma se per il presidente israeliano l’assenza è giustificata da motivi di salute, invece Netanyahu è stato costretto a rinunciare per i costi della trasferta giudicati proibitivi: un milione e 450 mila euro per il trasporto e gli apparati di sicurezza. Da mesi il primo ministro è oggetto di dure critiche dopo che la stampa ha rivelato che l’anno scorso le sue tre residenze sono costate ai contribuenti 700.000 euro. A rappresentare Israele ai funerali di Mandela saranno lo speaker della Knesset, Yuli Edelstein, e alcuni parlamentari. A bloccare Netanyahu è stato anche l’annuncio del ritorno in Medio Oriente del segretario di stato Usa, John Kerry.Tuttavia le malattie, i tagli alle spese e l’arrivo di Kerry potrebbero essere solo alcuni dei motivi che spingono le massime autorità di Israele a restare a casa. Le ragioni potrebbero essere anche altre, decisamente più politiche. Nei giorni scorsi Peres e Netanyahu hanno apertamente elogiato l’uomo simbolo della lotta all’apartheid ma entrambi sanno che Mandela è stato un accanito sostenitore dei diritti del popolo palestinese. Mentre in Sudafrica ricordano bene che per anni Israele è stato uno stretto alleato del regime razzista al quale avrebbe offerto anche testate atomiche.

Nel 2010 il quotidiano britannico Guardian pubblicò, tra le proteste israeliane, documenti rimasti segreti per molti anni firmati da Shimon Peres e da PW Botha (all’epoca entrambi ministri della difesa) e declassificati dalle autorità del Sudafrica post-apartheid. Il documento principale – scoperto da uno studioso americano, Sasha Polakow-Suransky – è la minuta degli incontri avvenuti il 21 marzo 1975 tra alti rappresentanti dei due paesi, tra cui il comandante delle forze armate sudafricane, RF Armstrong, che descrive l’interesse di Pretoria per i missili israeliani Jericho con testata nucleare. Il progetto, in codice “Chalet”, vide il 4 giugno del 1975 Peres e Botha incontrarsi a Zurigo. Nelle minute si dice che Botha espresse interesse «in un certo numero di unità Chalet (i missili Jericho, ndr)… a patto che sia disponibile il carico corretto», ossia la testata atomica. Peres rispose che lo era «in tre taglie», convenzionale, chimico e nucleare. I due politici firmarono nello stesso periodo anche un’intesa che ampliava la collaborazione militare tra i due paesi. La vendita dei missili però non avvenne, pare per una questione di costi.

Quei contatti rappresentarono un bel salto rispetto alla linea inizialmente adottata da Israele che aveva criticato apertamente l’apartheid negli anni Cinquanta e Sessanta. Era quella un’epoca durante la quale Tel Aviv cercava alleanze con i governi dei Paesi africani che si liberavano dal colonialismo. Dopo la guerra del Kippur (1973) molti Stati africani ruppero le relazioni con Israele che, da parte sua, si avvicinò al regime razzista sudafricano fino a invitare nel 1976 il premier John Vorster (con un passato nazista) che fu accolto con tutti gli onori dal primo ministro laburista Yitzhak Rabin (Premio Nobel per la pace nel 1994). La visita di Vorster aprì una grande collaborazione in campo militare: gli israeliani avevano il know-how e i razzisti sudafricani mettevano i capitali. La cooperazione andò avanti fino allo sviluppo del programma nucleare del Sudafrica (che scelse spontaneamente di smantellarlo nel 1991). Tutto ciò mentre alle Nazioni Unite i rappresentanti israeliani continuavano a condannare l’apartheid. Tra i paesi “occidentali” Israele fu il solo a riconoscere, non ufficialmente ma di fatto, la creazione da parte del regime razzista del bantustan del Bophuthatswana e a permettergli di aprire una «ambasciata» a Tel Aviv. Un passato sul quale il nuovo Sudafrica di Nelson Mandela ha poi preferito, almeno in parte, mettere una pietra sopra.