Il Lido da qualche giorno si è decompresso, pubblico nelle sale ma meno folla in giro in attesa del week end con Roger Waters (Roger Waters Us+Them) e Mick Jagger nel film di chiusura The Burnt Orange Heresy. Le piogge annunciate non sono mai arrivate, è cambiata l’aria, «l’estate sta finendo» – parafrasando – la Mostra pure. Sabato la giuria del presidente Lucrecia Martel rivelerà il Leone d’oro, intanto come sempre da qualche giorno si scommette sui titoli: vincerà la politica, la polemica o la qualità? Chissà. Ma che concorso è stato questo della 76° edizione?

Buoni film, budget importanti, autori noti, molte star, pochi rischi, tutto compresso all’inizio – ragioni di impegni degli attori, gli altri festival come Toronto ha spiegato Barbera – con un effetto un po’ di vuoto intorno, cioè nelle altre sezioni ufficiali che rispetto al concorso sembrano messe in sordina. In fondo mi dice un amico della stampa straniera, le scelte più audaci sono state proprio quelle del cinema italiano. Già. Martone, Marcello e oggi Franco Maresco con La mafia non è più quella di una volta che sarà un film corrosivo, come sempre lo è il regista palermitano dalle sue apocalissi in bianco e nero di macerie e umanità perduta di Cinico tv – in coppia allora con Daniele Ciprì – alle «ricostruzioni» della storia d’Italia recente e passata, la storia si sa non è mai disgiunta.

Belluscone – alla Mostra nel 2014 – alludeva ai rapporti tra Berlusconi e la criminalità organizzata ma il protagonista era un impresario di neomelodici che si dice siano quasi tutti – e spesso – molto vicino ai boss: che strana coincidenza tra le faccende di questo tizio e la storia italiana, ma la realtà è sempre nei risvolti, è lì che si afferma con forza e con evidenza.

NON È FACILE specie al cinema, e oggi quando tutto sembra più sfuggente, a cominciare dalla politica – chi sono i buoni e chi i cattivi? Guardiamo un po’ qui da noi. Robert Guédiguian, regista che nel suo cinema, film dopo film, cerca apertamente il confronto con il presente attraverso un lavoro collettivo, i suoi attori, la sua musa e compagna prima di tutto, Ariane Ascaride, e Pierre Daroussin, Anais Demoustier, Gerard Meylan guarda ancora alla Francia, quella dell’era Macron, che poi è l’Europa di oggi, un po’ come già accadeva nel precedente La Ville attraverso un microcosmo familiare in cui ciascuno dei componenti esprime un segmento della società attuale. Gloria Mundi, ambientato a Marsiglia, la città del regista e il suo set mette al centro persone comuni, giovani e meno giovani, spesso invisibili, alle prese con la sopravvivenza del precariato e dei salari troppo bassi, col ricatto dell’essere in prova – che mai si traduce in assunzione: una lotta che diventa quella tra poveri, che è spietata e ha cancellato la solidarietà di classe o anche semplicemente umana rendendola un lusso. Anne (Ascaride) fa le pulizie di notte perché si guadagna di più, ai compagni di lavoro che vogliono scioperare per buoni pasto decenti – almeno 5 euro – risponde che non può permetterselo.

IL MARITO (Darroussin) guida gli autobus, esce quando lei ritorna, la figlia (Demoustier) ha appena avuto una bimba, è in prova come commessa ma non piace alla padrona del negozio, suo marito ha fatto le rate per comprare una macchina, è un Uber, i tassisti gli spaccano le braccia. Vanno meglio le cose per l’altra figlia di Anne, col compagno hanno un negozio che compra per pochi euro a chi rivende per bisogno: borse, elettrodomestici, cellulari, stanno per aprire un secondo negozio il «modello» macroniano permea la loro visione del mondo: si è vincenti o perdenti, e tra questi ultimi ci sono i loro familiari.

Poi c’è Daniel, l’ex-marito di Anne, è appena uscito di prigione dopo decenni, isolato dal mondo scrive poesie e sa ancora godersi il tempo… In questa geometria ciascuno ha una grettezza, una crudeltà che nasce dal bisogno e al tempo stesso lo moltiplica, e il sentimento è solo opportunismo. Non c’ è spazio per la figura del «buono» – forse i due mariti di Anne – ma Gueidiguain non porta la sua scelta fino in fondo, non gli appartiene, almeno una memoria «umana» si fa sempre contrappeso nelle sue storie. Così deve spiegare costruire giustificazioni, rinchiudere il gesto nelle ragioni del presente. Funziona? Non proprio, capiamo tutto, tutto ci viene detto ma l’effetto è quasi anestetizzante, sopprime l’inquietudine e pure il cinema nella sua scommessa col mondo.

Invece: si può parlare di gentrificazione in un ritratto dell’adolescenza quasi rohemriano tra estate e fine di un’epoca, corse in bicicletta e cadute? Cosa succede nella magnifica Porto, con l’arrivo del turismo low cost, le economie impazzite, le gru che spuntano ovunque e i quartieri che cacciano i vecchi residenti?
Vincente ha finito la scuola, è tempo di vacanze, come un flaneur su due ruote vagabonda per la sua città, gli amici, le serate, le sbronze. Dovranno cambiare casa con sua madre e i fratelli, senza contratto la proprietà vuole mandarli via per guadagnare di più, significa una nuova vita, abitudini, immagini. La chiamano, dicono gli amici, gentrificazione.E poi? Caes que Ladram aos Passaros nei cortometraggi di Orizzonti, è uno di quei film che sorprendono la propria materia, che sanno volare leggeri nella contemporaneità con un personaggio e le sue giravolte.

L’autrice, Leonor Teles, illumina una questione importante nel Portogallo di oggi come la speculazione immobiliare, sempre di liberismo si tratta, e nel suo corpo a corpo con la realtà rimane libera, lascia che le sue immagini fluiscano con umorismo e con insolenza, in un film politico per la sua indipendenza di sguardo e per le sue invenzioni. È una cineasta da seguire con attenzione Teles, e anche la prova di una cinematografia come quella portoghese che attraverso le generazioni si rinnova, e come poche sa unire ricerca, desiderio, necessità del presente.

PURTROPPO non vale per il film portoghese del concorso definito una specie di Novecento lusitano tra gli anni settanta prima e dopo la Rivoluzione dei garofani e oggi, nelle vicende di una famiglia legata a Salazar, lui latofondista bello e arrogante, sintesi del patriarcato, che si trasforma per stile e per narrazione in una specie di telenovela brasiliana. Poteva essere una «riappropriazione» come fa il cinema filippino – anche i primi Lav Diaz – del pop, invece il regista Tiago Guedes lo applica con devozione e senza scarti. Viene da chiedersi perché sia stato selezionato A Herdade, prodotto da Paulo Branco, uno dei grandi artefici del cinema portoghese, produttore anche di De Oliveira, che ci piace moltissimo, e va bene che una cinematografia produca anche questo. Metterlo in competizione invece un po’ meno, di certo non lo aiuta.