A un anno dall’insediamento di Luis Arce alla presidenza della Bolivia dopo la sanguinosa parentesi del colpo di stato, i gruppi ultraconservatori hanno ripreso la loro offensiva destabilizzatrice. Il pretesto per la mobilitazione, giunta al quarto giorno consecutivo, è dato dalla legge 1386 contro il riciclaggio di denaro (nota come “Strategia nazionale di lotta contro i profitti illeciti e il finanziamento al terrorismo”), la quale consente il controllo di ogni tipo di transazione sospetta su qualsiasi conto bancario.

APPROVATA lo scorso agosto, la legge è stata subito presa di mira dai gruppi di opposizione, secondo i quali l’obiettivo inconfessato del provvedimento sarebbe quello, come denuncia il Conade (Comitato nazionale per la difesa della democrazia), di «generare azioni di intelligence finanziaria contro la popolazione, di controllo delle attività economiche popolari e di persecuzione politica», tanto più di fronte alla possibilità concessa all’esecutivo di cambiare la norma per decreto senza passare per il Parlamento.
In un paese in cui la maggior parte della popolazione lavora nel settore informale, e dunque con difficoltà oggettive a spiegare la provenienza dei soldi spesi per comprare una casa o un camion, i gruppi di destra, a cominciare dai comitati civici di Potosí (Comcipo) e di Santa Cruz, hanno avuto gioco facile nello scatenare i timori dei piccoli commercianti, dei lavoratori dei trasporti e di quelli delle cooperative del settore minerario, soprattutto nelle regioni di Santa Cruz, Potosí, Tarija e Cochabamba. E a nulla sono servite le rassicurazioni del governo sulla vera natura della legge che, ha spiegato il viceministro del coordinamento con i movimenti sociali Juan Vilca, non si propone affatto di colpire il settore informale, bensì solo chi «si arricchisce in maniera illecita».

«Bisogna essere matti per pensare che il nostro governo voglia nuocere ai più poveri», ha dichiarato il presidente Arce, accusando la destra di fomentare le proteste per evitare che avanzino i processi giudiziari in corso contro i responsabili del golpe del 2019.
Le spiegazioni di Arce non sono tuttavia bastate a calmare gli animi, benché qualche segnale di apertura al dialogo si cominci ora a intravedere da entrambe le parti. Tanto più che le proteste, tra ultimatum incrociati, sono in vari casi sfociate in scontri, anche violenti, tra manifestanti, movimenti filo-governativi e forze dell’ordine, queste ultime accusate di agire con eccessiva durezza.

C’È SCAPPATA anche una vittima, il contadino appena 22enne Basilio Titi Tipolo, della cui morte, avvenuta martedì a Potosí, il governo ha accusato proprio il Comcipo, avanzando pesanti dubbi sul risultato dell’autopsia – secondo cui il ragazzo sarebbe rimasto soffocato dalle foglie di coca – e in ogni caso denunciando il ritardo dell’ambulanza a causa del blocco stradale.
Impossibile, da un lato e dall’altro, non richiamarsi alle proteste del 2019 finite con il rovesciamento di Evo Morales. Non a caso, il presidente del Comité pro Santa Cruz Rómulo Calvo ha invitato le forze armate e la polizia a unirsi al popolo, esattamente come aveva fatto nel novembre del 2019 il suo predecessore Luis Fernando Camacho, oggi governatore di Santa Cruz. Mentre il rappresentante della Csutcb (Confederación Sindical Unica de Trabajadores Campesinos de Bolivia) Eber Rojas ha dichiarato di sentire già «l’odore di un secondo golpe».
E lo stesso ha affermato il presidente Arce, il quale, invitando la base a mobilitarsi contro il nuovo tentativo di destabilizzazione, ha garantito che non permetterà il ripetersi dei fatti del 2019, impegnandosi a difendere il cosiddetto «processo di cambiamento».

UN PROCESSO che, a un anno dall’avvento del suo governo, rivela in realtà luci e ombre: buoni risultati sul fronte del controllo della pandemia e della ripresa economica, con relativa crescita dell’occupazione, ma nessun passo avanti rispetto al contestato modello estrattivista. Né può di certo rassicurare il fatto che al dirigente indigeno Adolfo Chávez, già leader della lotta contro la strada destinata a tagliare in due il parco del Tipnis e rappresentante della Coica (l’organizzazione indigena del bacino amazzonico), sia stato impedito di recarsi a Glasgow per la Cop26, dove avrebbe denunciato l’aumento vertiginoso della deforestazione e l’espansione delle attività estrattive e dell’agribusiness a danno dei territori.