Ignazio Marino è dunque caduto, e nel caravanserraglio di voci televisive che si rincorrono è davvero arduo comprendere le ragioni profonde della crisi dell’amministrazione capitolina, al di là del casus belli offerto dall’episodio, certo sgradevole, delle spese personali messe in conto alla cittadinanza. I (pochi) sostenitori rimasti dell’ex sindaco traducono la sua «caduta» in «cacciata», adombrando che dietro alle difficoltà via via accumulatesi nell’ultimo periodo vi sia la solitudine di un riformatore, abbandonato nel momento in cui tentava di liberare la Capitale dagli ingombri pluriennali della corruzione elevata a sistema e della speculazione assurta a dogma di sviluppo urbanistico.

Quando si intaccano strutture clientelari ramificate e sedimentate è inevitabile attendersi non solo l’aggressione degli interessi economici e malavitosi offesi, ma anche una ribellione il cui carattere di massa è spiegabile riflettendo sul vero e proprio blocco sociale che all’ombra dell’impasto affaristico-clientelare può prender corpo. Questo è ancor più vero in tempi di crisi economica prolungata.

I detrattori di Marino insistono invece, oltre che sulla sua almeno apparente disinvoltura nell’attingere all’erario pubblico per scopi personali – episodi la cui spiacevolezza è acuita, ancora, dallo stato di precarietà economica in cui versa la popolazione -, sulla sua incapacità a gestire una situazione politicamente esplosiva, e quest’ultima obiezione vale a prescindere dall’idea che l’opinione pubblica può essersi fatta sull’assenza o meno di pubblica moralità da parte del primo cittadino.

Probabilmente la crisi finale dell’esperienza amministrativa del centro-sinistra romano è dovuta, nella contingenza dell’attuale giunta, ad un accavallarsi delle due cose. Ma la vicenda Marino getta luci di più ampia portata sullo stato della lotta politica nel Paese, dagli enti locali fino al governo centrale.

In primo luogo, continuano ad emergere tutti i limiti della cultura istituzionale ipermaggioritaria emersa con l’ondata referendaria dei primi anni ’90, della quale la legge per l’elezione diretta dei sindaci fu considerata il frutto più riuscito, oltre che un modello di riferimento per eventuali successive riforme a carattere nazionale (il sindaco d’Italia). In realtà la durata media delle «legislature» locali non pare essere aumentata, e anzi si assiste ad una lunga teoria di commissariamenti per consigli comunali sciolti, o per l’esplosione delle maggioranze che li tenevano in piedi, o per infiltrazioni malavitose. E quando questo accade, cioè quando le maggioranze vengono meno, ciò non succede per l’azione politica di partiti che, pur piccoli, tolgono alla luce del sole la propria fiducia ai governanti, ma per manovre individuali o di palazzo rispondenti ad interessi di potentati opachi. I partiti poi sono stati ridotti dalla legge elettorale a comitati elettorali una tantum, incapaci da un lato di selezionare una classe dirigente degna di questo nome, dall’altro di spalleggiare le giunte ed i sindaci nel proprio sforzo quotidiano.

A questo si deve aggiungere che, in un evo caratterizzato dallo sbrego federalista, tutta la mole di infiniti dibattiti in materia si è poi tradotta, all’atto pratico, in un accanimento nei confronti delle zone più svantaggiate del Paese, senza che niente resti del tanto ventilato «avvicinamento delle istituzioni ai cittadini». Anzi, tutt’altro. Come ai tempi dell’ipercentralismo post-risorgimentale, contro cui tanta parte del movimento operaio italiano si è storicamente scagliata, i sindaci sono spesso «dimissionati» dalla manovra a tenaglia del potere politico centrale – insofferente nei confronti di eventuali tentativi di fuoriuscita non concordati dalla catena clientelare centrale – e dall’inamovibile istituzione prefettizia.

A ben vedere, il perno reale attorno al quale tutto l’accrocchio si affastella è quello della legge di stabilità interna, la vera e propria via nazionale all’austerità.

Per cui la lotta politica locale, ad immagine e somiglianza di quella nazionale, invece di svolgersi lungo le assi di un confronto di esigenze sociali opposte e di modelli divergenti di sviluppo, si avviluppa attorno alla gestione localistica dei cascami della crisi.

Questa cultura amministrativa pare pervadere ora soprattutto il nascente «partito della nazione», che recide anche per questa via gli ultimi legami con la tradizione del movimento operaio italiano, per il quale il potere locale era sempre vissuto come fucina di classi dirigenti rinnovate nella loro estrazione sociale rispetto al sempiterno notabilato, e centro di contropotere e di approfondimento dell’impalcatura democratica.

Cementato al vertice dal presunto carisma del leader, e da una tendenza strutturale all’attendamento trasformistico attorno al tiepido falò del potere dispensatore di privilegi, alla base il Pd si nutre di una vasta ramificazione di meccanismi verticali di gestione del potere e di formazione di classi dirigenti basati sulla fidelizzazione clientelare.

Più che un partito, una federazione di cacicchi locali, ognuno interessato a costruirsi un elettorato di riferimento per poi, da posizione di forza, meglio mercanteggiare col potere centrale.

La necessità di rispondere alle domande sorte dal basso e di cementarle in un «blocco storico» a cui dare risposte in termini di amministrazione e dunque di consenso, pratica virtuosa perseguita dalle sinistre in epoca repubblicana ed ancor prima, è stata così ribaltata nella fluidità di una pratica amministrativa porosa e frantumata, attraverso la quale hanno potuto scorrazzare indisturbate forze sociali retrive e parassitarie, che risalendo per li rami hanno dato la scalata al potere centrale, condizionandolo ben oltre l’abituale in una democrazia che si vuole rappresentativa.

Cominciare a ribaltare questa pratica potrebbe costruire un ottimo punto di avvio per la costruzione di un fronte politico alternativo. Del resto buona parte dell’epopea del movimento delle classi subalterne del Paese è cominciata proprio da qui.