I numeri per capire la sfida per le elezioni lombarde sono tre: sette, due, uno.

Sette sono i candidati alla presidenza della Regione: Angela De Rosa, unica donna, è candidata per i fascisti de terzo millennio di Casapound, e già questa è un’anomalia, che una formazione dichiaratamente neofascista possa candidarsi alle elezioni. C’è Giulio Arrighini, di Grande Nord, un partitino formato dagli esuli della Lega non più Nord, con ancora il sogno, cancellato dalla svolta nazionalista salviniana, di una regione autonoma e indipendente e una previsione di risultato da prefisso telefonico.

Poi ci sono i due candidati di sinistra: Onorio Rosati, di Liberi e Uguali, e Massimo Gatti di SinistraXlaLombardia, semplificando la declinazione territoriale di Potere al Popolo. Per loro sarà una sfida all’ultimo voto per riuscire ad arrivare alla soglia di sbarramento e eleggere almeno un consigliere, in modo da non lasciare sguarnito il consiglio regionale lombardo di una rappresentanza sinistra. C’è Dario Violi, 32enne bergamasco, che guida il battaglione pentastellato. Nonostante un probabile avanzamento della sua compagine, rispetto allo scarso risultato di cinque anni fa, quando i grillini si fermarono al 14%, il candidato Cinque Stelle non sembra poter impensierire, per la vittoria finale, i due big in campo.

E arriviamo così al secondo “numero magico” delle elezioni lombarde: il due (inteso come candidati). Sono quelli che, formalmente, si contendono il titolo: Giorgio Gori e Attilio Fontana. Quest’ultimo rappresenta il terzo numero: l’uno, quello del vincitore già annunciato. Perché quella lombarda sembra una partita con un finale già scritto.

Checché ne dica Giorgio Gori, candidato del fu-centrosinistra, che fino all’ultimo ha cercato di convincere (pure se stesso?) che la battaglia per la conquista del Pirellone fosse aperta, domani sera Attilio Fontana potrà tranquillamente sedersi sulla poltrona del piano più alto del nuovo palazzo Lombardia. E il centrodestra potrà continuare a regnare, come fa da venticinque anni a questa parte, sulla locomotiva d’Italia.

Dopo una campagna elettorale che, di sicuro, lascerà pochi ricordi: in una regione dove i pendolari sono costretti a odissee quotidiane per arrivare al lavoro, dove la sanità viene privatizzata ogni giorno di più, dove (nonostante la Lombardia venga considerata ancora da molti la locomotiva d’Italia) le fabbriche chiudono e i padroni delocalizzano lasciando a casa migliaia di lavoratori, si è parlato poco (e male) dei veri temi del territorio, cannibalizzati dalle elezioni politiche.

Se si esclude la sparata iniziale del candidato del centrodestra Attilio Fontana sulla razza bianca, nessuno dei pretendenti ha lasciato il segno. Di sicuro non Fontana, che dopo la gaffe, più o meno volontaria, sulla difesa della razza bianca contro il rischio dell’invasione e della sostituzione etnica, ha fatto di tutto per evitare ogni tipo di confronto, tanto da essere stato ribattezzato il «candidato fantasma».

Ma nemmeno Giorgio Gori ha fatto nulla per farsi vedere, quasi fosse il favorito, che deve gestire il vantaggio evitando di fare assist agli inseguitori, forse anche perché spaventato dal vento contrario che il Partito Democratico deve affrontare in questo election day. Il candidato pentastellato ha ripetuto la solita manfrina della loro diversità da tutto il resto, mentre la candidata di Casapound ha approfittato delle giuste manifestazioni di contrarietà alla loro presenza nate in ogni angolo della Lombardia dove i fascisti hanno provato a fare banchetti elettorali per farsi pubblicità.

Gli unici ad aver attraversato in lungo e in largo il territorio lombardo, cercando di portare anche elementi di novità rispetto alle politiche degli ultimi anni sono stati i due candidati della sinistra, Onorio Rosati e Massimo Gatti. Che entrino o non entrino in consiglio regionale non sarà indifferente, in una Regione che da oltre due decenni funge da laboratorio, in prospettiva nazionale, per le pessime politiche della destra.