«I soliti reparti sono scomparsi: tutto o quasi l’ospedale è stato destinato a accogliere i contagiati di Covid 19. È un flusso che continua a tutte le ore». Carlo, infermiere di 65 anni, descrive quanto succede all’ospedale di Cremona.

Lui è lì, volontario, fin dall’inizio dell’emergenza, dopo aver risposto al bando della locale azienda sanitaria di ricerca di personale da mandare a Cremona. Sotto ai suoi occhi ha visto le difficoltà dell’attività quotidiana nell’ospedale lombardo: «A volte le ambulanze sono costrette a cambiare rotta e a dirigersi verso altre città. Perché qui ormai non c’è più capacità di accogliere nuovi contagiati». Che nella sola provincia di Cremona sono arrivati a più di tremila nell’ultimo fine settimana.

«Tutti i giorni mi occupo delle attività di assistenza e di mettere in atto le terapie mediche necessarie», spiega ancora Carlo che, finora, all’ospedale ci è sempre andato con tutti i dispositivi di sicurezza richiesti. A differenza di altre strutture dove, soprattutto nei primi giorni, c’è stata una certa difficoltà e lentezza a rispondere alla diffusione del virus. «All’inizio si è partiti piano piano: non ci si è resi conto, come d’altronde nessuno in Italia, della pericolosità del coronavirus», è la testimonianza di Mauro, giovane infermiere di un pronto soccorso tra le zone rosse di Bergamo e Milano. «È stata più difficile all’inizio perché mascherine, camici monouso, visiere non erano disponibili nella quantità necessaria. Ora la situazione, almeno da quel punto di vista, è decisamente migliorata».

Se la macchina sembra più rodata, rimane la questione della carenza di personale: «Già in tempi normali si hanno problemi di sostituzione, ora è peggio: per alleggerire il carico di lavoro ci sarebbe bisogno di più medici e infermieri, ma anche di operatori socio-sanitari». Una necessità che, a quanto riferisce il personale sul campo ma testimoniato anche dai vari bandi di reclutamento promossi da Regione Lombardia e Protezione Civile, si allarga ad altre zone della Lombardia e a strutture come le case di riposo. Lo dice Alberto, giovane dottore della Bergamasca, che lavora in una delle case per anziani dove il virus ha mietuto tante vittime: «Ci ha colpito in un momento di carenza di risorse e personale a livello regionale: nelle case di riposo medici e infermieri si sono ammalati e mancavano adeguati rinforzi per sostituirli. “Se non vado io, chi altro ci va?”, si sono chiesti in tanti. Pur con qualche sintomo, all’inizio, qualcuno è andato avanti nel lavoro, aiutando involontariamente la propagazione del virus».

Soprattutto nelle province di Bergamo e Brescia, dove in prima linea sono i camici bianchi della Guardia Medica che nei loro racconti descrivono una situazione davvero complicata. «Nelle dodici ore filate di ambulatorio, ci sono stati momenti in cui suonavano tutti i telefoni: non facevo in tempo a rispondere a uno che partiva l’altro – dice Davide – Qui a Bergamo la situazione ormai è così: il criterio di positivo e negativo sembra ormai non esistere più. Tutti o quasi coloro che hanno sintomi respiratori fanno riferimento a questo nuovo virus».

A esserne colpiti ci sono anche gli operatori sanitari: nella provincia di Bergamo sono già state registrate morti tra i medici e sono più di un centinaio quelli malati o in quarantena. «In alcuni casi siamo mandati un po’ allo sbaraglio – ammette Davide – Ovvio, ci dicono che dobbiamo indossare le protezioni adeguate per fare le visite domiciliari: un kit per ogni paziente. Un collega ne ha ricevuti quattro, a fronte però di tanti altri che non puoi lasciare a casa senza visita».