Già l’inizio d’anno non aveva annunciato niente di buono in Ucraina. Lo scorso 1 gennaio, con una fiaccolata per le strade di Kiev, un paio di migliaia di nazionalisti ucraini avevano celebrato il 106° anniversario della nascita, il 1 gennaio 1909, del capo del cosiddetto Esercito insurrezionale ucraino (Upa), Stepan Bandera che, nella seconda guerra mondiale, si schierò con l’esercito nazista e perpetrò, insieme alle SS tedesche, crimini contro i propri connazionali, per lo più ebrei. Il capo di dell’organizzazione di destra “Svoboda”, Oleg Tjagnibok, chiese nell’occasione che il governo restituisca a Bandera il titolo di eroe dell’Ucraina (attribuitogli sotto la presidenza Jushenko nel 2010 e subito annullato dal Tribunale centrale) e che venga riconosciuta ufficialmente l’Organizzazione dei nazionalisti ucraini (Oun) da lui creata.

Insieme a «Svoboda», alla manifestazione di Kiev avevano preso parte, in tute mimetiche e con stendardi di Upa e Oun, anche rappresentanti di «Pravyj sektor» e del battaglione neonazista «Azov». Al Ministero degli Esteri russo, commentando la manifestazione di Kiev, avevano dichiarato che «non si tratta di una qualche pericolosa tendenza neonazista nel centro dell’Europa, bensì di un’azione concreta che, per forma e contenuto, ricopia le tradizioni naziste. I nostri partner occidentali dichiarano regolarmente che “la parte russa esagera le manifestazioni di neonazismo in Ucraina, ma essi non vedono alcun fatto. Ma essi non li vedono, perché i canali occidentali non trasmettono mai le fiaccolate nel centro di Kiev e non raccontano i fatti concreti della biografia di Stepan Bandera».

È invece The Washington Post che, in un servizio di Adrian Karatnitski dal titolo «Azov e Ajdar – una minaccia per la nuova Ucraina», mentre da un lato fa il panegirico del «nuovo attivismo civile», della «lotta alla corruzione», di quella che chiama «riforma dell’esercito» (finora, secondo il Post, «infiltrato di agenti russi»), delle «misure per respingere la minaccia russa», ecc., dall’altro mette in guardia contro una «nuova minaccia»: l’attività dei comandanti dei battaglioni e delle formazioni armate. Quanto poco filo-russa sia l’impostazione del servizio dell’autorevole giornale americano lo dice la cronistoria tracciata, in cui non si parla di golpe, bensì di «caduta del regime di Janukovic» e della «aggressione russa», che costrinsero il governo, data la «cattiva preparazione dell’esercito», a «ricorrere all’aiuto di migliaia di volontari», che «agivano sull’impeto del sentimento patriottico». Una «piccola parte dei reparti volontari», scrive ancora il Washington Post, era costituita da «rappresentanti dei movimenti di ultradestra, che combattevano con motivazioni ideali. Tra essi, l’ultraconservatore “Pravyj sektor” e il famoso battaglione “Azov”»; altre brigate, tipo il battaglione “Dnepr-1”, erano state costituite e finanziate dagli oligarchi. Molte di queste formazioni hanno dimostrato valore e hanno contribuito a respingere l’attacco delle forze filorusse».

Ora, tuttavia, scrive il Post appena dopo l’esaltazione della rivolta di Majdan, «alcune formazioni mostrano i loro lati peggiori. Negli ultimi mesi hanno terrorizzato o attentato alla vita di funzionari statali, hanno minacciato di prendere il potere se Poroshenko non riesce a vincere la Russia». Lo scorso agosto, «il battaglione “Dnepr-1” sequestrò il Presidente del Comitato statale per l’agricoltura, affinché non nominasse un funzionario scomodo» che avrebbe potuto nuocere ad alcuni interessi. E «il 15 dicembre, queste formazioni hanno bloccato il convoglio umanitario diretto nel Donbass, dove esiste una seria minaccia di catastrofe umanitaria». Il 23 dicembre, «il battaglione “Azov” ha dichiarato di voler prendere controllo del porto di Mariupol»; «nei confronti del solo “Ajdar” la procura ha avviato 38 procedimenti» e lo stesso presidente Poroshenko avrebbe sollevato la questione dei battaglioni, lo scorso novembre, al Consiglio nazionale di difesa.

Esperti militari russi ipotizzano che il rifiuto di «Pravyj sektor» – al centro di una sorta di sollevazione a Kharkov, lo scorso dicembre – e del suo leader Dmitrij Jarosh, a sottostare allo Stato maggiore, unitamente al basso morale delle truppe costrette a combattere contro propri connazionali civili nel Donbass, possa provocare un generale rifiuto della disciplina nell’esercito ucraino e nella guardia nazionale.

Ecco che allora il giornale statunitense veste i panni del consigliere e fa i nomi di coloro che destano maggior preoccupazione: il ministro della Difesa Arsen Avakov, che, «invece di contrastare tali azioni dei battaglioni», propone addirittura di rifornirli di mezzi corazzati e li eleva «al rango di brigata. Crea sconcerto che a settembre egli abbia nominato il comandante del neonazista “Azov” alla carica di capo della polizia per la regione di Kiev». E, accanto ad Avakov, l’oligarca Kolomojskij che «dopo aver giocato un ruolo onorevole nella stabilizzazione a est, ora ignora il potere centrale».

Evidentemente a Washington ci si preoccupa di dare una veste «rispettabile» ai golpisti di Kiev e quindi «cosa si deve fare in questa situazione? Poroshenko vuole risolvere il problema, ma non si decide ad agire», anche perché deve concordare le azioni col premier Jatsenjuk, «di cui Avakov è il principale alleato». L’inviato del Post sembra chiedersi: si dovrà allora intervenire dall’esterno in modo deciso?

La voce dei «tutori finanziari occidentali», della Nato la cui strategia di allargamento ha non poche responsabilità ed è pericolosamente arrivata al confine russo, esige che si metta ordine e si contrastino i «germi della dittatura militare» costituiti dalle mosse troppo avventate dei battaglioni, i quali, oltretutto, «sollevano le reazioni negative della stampa mondiale». Il messaggio appare fin troppo chiaro: occhio ragazzi, ciò che fate nel Donbass non preoccupa nessuno, perché la stampa occidentale si ferma a Kiev e non arriva fino a Donetsk. Però, almeno Kiev bisogna vestire gli abiti buoni: le mimetiche e gli stendardi nazisti lasciamoli per continuare le stragi di civili nella Novorossija, cioè nel Donbass insorto.