Nelle pagine del ricco programma de I Mille occhi pezzi di cinefilia radicale e oggetti di culto (nazional) popolare si incontrano. Si passa, con una certa (divertente) noncuranza, da La tentazione del suicidio nell’adolescenza, inedito del 1968 di Ermanno Olmi ritrovato dalla Fondazione Luigi Micheletti di Brescia e ora riproposto nella città simbolo della rivoluzione psichiatrica dopo l’anteprima veneziana alle Giornate degli Autori, alle avventurose peripezie di Lory del Santo, protagonista di W la foca di Nando Cicero; dall’esordio censuratissimo di Dimos Theos (Kierion), osteggiato regista greco che giovedì prossimo riceverà il Premio Anno Uno, a una rassegna dedicata ai grandi nomi dell’avanguardia serba e croata; dalla prima personale internazionale dedicata al tedesco Roger Fritz, già assistente di Visconti e Fellini atteso nei prossimi giorni a Trieste, a un’immancabile perlustrazione del cinema italiano, mai esaurita.

Nella giornata di sabato, troverà spazio l’affettuoso omaggio a Luce Vigo, figlia del grande Jean scomparsa lo scorso febbraio, alla quale il Festival dedica la presente edizione. Due documenti, Crossing Paths with Luce Vigo di Jem Cohen (2010) e Luce, à propos de Jean Vigo di Leïla Férault-Levy (2016), la raccontano attraverso la sua voce, i ricordi, la casa piena di oggetti, libri, foto e souvenir, che si alternano ai frammenti degli indimenticabili À propos de Nice, Zéro de conduit, L’Atalante. Nata il 30 giugno 1931, Luce Vigo aveva solo tre anni quando il padre (a sua volta orfano dell’anarchico militante Miguel Almereyda) morì di tubercolosi. Persa anche la madre cinque anni più tardi, crebbe senza i genitori, ignorando quasi del tutto l’importanza seminale che Vigo aveva avuto in ambito cinematografico. «C’erano altri problemi», avrà occasione di ripetere. La guerra, le malattie.

Solo nel 1951 Luce si avvicinò finalmente alla figura e all’opera del padre, quando venne istituito il premio Jean Vigo. Un passo decisivo, che le spalancò le porte di un mondo dal quale non si sarebbe più allontanata, ricoprendo il ruolo di critico, programmatore e infaticabile promotore della settima arte.

Tra i percorsi, spuntano anche altre figure poco note del panorama cinematografico internazionale, anche se non per questo necessariamente da considerare «minori». Ad aprire e chiudere il Festival sono due film di Seth Holt, figura «maledetta» del cinema inglese, che con le tinte scure dei suoi noir si inserisce perfettamente in un quadrilatero ideale che completano i connazionali Alfred Hitchcock, Terence Fisher e Michael Powell.

Cinque dei suoi sette film (per gli altri si dovrà attendere l’edizione del 2018) promettono di restituire le infinite «sfumature di nero» di un cineasta geniale e autodistruttivo, accolto all’inizio degli anni’60 come una grande promessa, ma finito prematuramente nel baratro dell’alcool e della depressione. I suoi film sono sgradevoli e dark, espressione di un animo irrimediabilmente tormentato. Basti pensare a Nanny la governante (1965), con un’ambigua Bette Davis nei panni di una governante devota e assassina che sembra l’erede diretta della Baby Jane di Aldrich, o a Taste of Fear (La casa del terrore, 1961), che senza raggiungerne i vertici si muove tra echi de I diabolici di Clouzot e ambiziosi riverberi gotici à la Tourneur (Il bacio della pantera). Non fosse altro che per il bianco e nero espressionista e i riflessi di luce sull’acqua della piscina.