Andrzej Duda, presidente polacco. Ovvero il grande assente, giovedì scorso, allo Yad Vashem di Gerusalemme, si sono tenute le celebrazioni per il settantacinquesimo anniversario della liberazione di Auschwitz. A tutti gli effetti scoccherà oggi: le autorità israeliane hanno giocato un po’ d’anticipo. Duda era stato invitato, ma non figurava tra gli oratori più prestigiosi, e cioè Frank-Walter Steinmeier, Emmanuel Macron e Vladimir Putin. Uno sgarbo inaccettabile, a suo avviso. Ha scelto di restare a Varsavia.

L’irritazione di Duda non è affatto infondata. La Polonia vantava prima del 1939 la più grande comunità ebraica d’Europa. Subì l’invasione di Hitler e venne trasformata in una terra-lager. Vide scomparire quasi tutti i suoi cittadini di origine ebraica (tre milioni). Non ebbe una sua Vichy. Il Paese, poi, ha vissuto nell’ultimo trentennio un’eccezionale fase di riscoperta del patrimonio ebraico. Sono sorti musei, sono nati festival di cultura ebraica, si sono ricostituite le strutture della comunità ebraica e sono stati pubblicati libri, saggi e ricerche. Una fioritura di processi impensabile, fino al 1989. Durante il periodo del comunismo la questione ebraica divenne infatti tabù. Non si parlava dei morti di Auschwitz-Birkenau e Treblinka (il campo dove furono massacrati gli ebrei di Varsavia), né dei superstiti dell’Olocausto che rimasero in Polonia. Il dramma degli ebrei non doveva assumere rilevanza eccessiva nei confronti del dramma nazionale, dei morti polacchi non ebrei (anch’essi tre milioni), delle città distrutte. Ma era un dramma limitato alla sola dimensione dell’invasione nazista del ‘39: quella immediatamente successiva, da parte dell’Urss, veniva taciuta per questioni ideologiche.

Non è più così. Duda e il governo populista al potere dal 2015, guidato da Mateusz Morawiecki, insistono molto sul ruolo sovietico nel ’39. L’Urss e il Terzo Reich, dicono, furono la stessa cosa. E su questo hanno ingaggiato un durissimo scontro con Vladimir Putin, che da parte sua sostiene che anche la Polonia non fece nulla per opporsi a Hitler nel ’38 a Monaco. Fu quello, per il presidente russo, il vero motivo scatenante della Seconda guerra mondiale.

Il fatto che Putin abbia parlato allo Yad Vashem è stato vissuto molto male da Duda. Un’altra ragione per restare a Varsavia e concentrarsi sui preparativi della commemorazione di oggi al museo di stato di Auschwitz-Birkenau. Duda ha lanciato un messaggio in vista dell’evento, sottolineando tra l’altro proprio la questione della riscoperta del patrimonio ebraico.

Tutto vero, com’è vero che l’antisemitismo in Polonia non è maggiore di quello che si registra nel resto d’Europa, ma la questione ebraica non è così lineare. Il governo di Varsavia sta usando il Novecento come fonte di consenso. La sofferenza del popolo polacco, vilipeso da nazisti e comunisti, è al centro del discorso. E lo è anche l’idea che la Polonia sia una nazione pura, che resistette eroicamente al nazismo negli anni della guerra (e al comunismo in quelli successivi), senza registrare episodi di collaborazionismo e senza macchiarsi di responsabilità nell’Olocausto.

Nel 2018 il Parlamento varò una legge che perseguiva penalmente chi avesse messo in discussione tale lettura. Storici e associazioni che si occupano di memoria protestarono, e alla fine la misura fu ritirata. La loro tesi fu che una norma del genere avrebbe limitato i confini della ricerca, impedendo di scavare in alcune pagine nere della storia polacca, qual è il pogrom di Jedwabne del 1941, villaggio dove gli abitanti polacchi uccisero gli ebrei, i loro vicini di casa. E Vicini è il titolo del libro che lo storico polacco-americano Jan Gross ha scritto su quel crimine. Per i populisti al potere, Gross è un mistificatore. Per altri, al contrario, è un uomo coraggioso che vuole svelare dolorose verità.

Tra coloro che a suo tempo criticarono maggiormente la “legge sull’Olocausto” c’è Dariusz Stola, direttore del Polin, grande e moderno museo sulla storia degli ebrei polacchi, situato nel cuore del vecchio distretto ebraico di Varsavia. Il governo lo ha di fatto sospeso, congelando il rinnovo del contratto. Stola sostiene che sia un punizione; l’esecutivo afferma che è suo diritto esercitare tale opzione. La storia è materia sensibile, che divide: in Polonia, forse, più che altrove.