Sarebbe piaciuto a Gozzano, forse non tanto il tessuto di immagini in sé, la sceneggiatura, la struttura del prodotto (neppure più telefilm ma impasto maturato dentro i meccanismi di produzione postindustriale, palinsesto trito per quanto collaudato messo sotto gli occhi della signorina Felicita) quanto lo squarcio domestico che prefigurano gli episodi di Lolita Lobosco: tutta una canizie avvolta in scialli lanuti, riscaldati dagli odori di cenere, di scorza, d’agrumi che esalano dai bracieri o dai camini; o i coniugi che finito di cenare – i noccioli di nove olive di numero ancora nel piatto – s’accoccolano sui divani cobalto e s’addormentano nella penombra, mentre il televisore sputa abbagli, intermittenze. Lo conosco bene, lo ricordo nei confusi anni d’infanzia, quel crepuscolo domenicale: le ombre, gli sbotti sonori che s’attaccavano improvvisamente ai muri; la sera sedimentata in murmure, sibilante, vibrata dallo schermo convesso di un Telefunken, quando da lì arrivavano le avventure di Pinocchio, di Ligabue, o qualche replica di Belfagor, figli legittimi del cimento televisivo di Rossellini.

NEGLI ANNI Settanta su Raiuno, in prima serata, si potevano vedere le vicende di Socrate, di Blaise Pascal o di Cosimo dei Medici, frutto della «conversione» televisiva di uno dei più grandi registi della storia (forse il più grande), colui che aveva fatto del cinema un’entità, un corpo a sé: non qualcosa di ancillare, nato come esigenza di rappresentare un referente esterno (la realtà), ma invenzione pura e semplice della realtà. E se quello era corpo, corpo-cinema adattatosi al formato televisivo e intento a dettare il tempo al reale, ora i prodotti che impazzano sulle reti televisive, non solo italiane, sono le deiezioni di quel corpo, perfetto specchio (liquido: liquame), di un mondo che è cambiato (è la risaputa modernità liquida di Bauman) ed è scandito dai ritmi incalzanti e disperati con cui si susseguono i latrati, i botta-e-risposta impermaliti, gretti o vacuamente sarcastici sui social.

Esistono dei video, delle gif animate formidabili che circolano nella rete e riassumono bene questa liquidità, questa iniquità, in cui ci sono due cani che ruggiscono uno contro l’altro, bavosi, idrofobi, separati solo da un cancello. Ti viene da pensare che se non ci fosse quella barriera si sbranerebbero per quanto sono veementi le minacce che s’indirizzano; e invece quando il cancello si apre mettendoli inaspettatamente a contatto, i due animali imbarazzati uggiolano, scodinzolano, vorrebbero scomparire dalla testura dell’esistenza per quanto sono a disagio, salvo poi riprendere coi latrati quando il cancello si richiude.

COSÌ FALANGI di opinionisti, forti della distanza di sicurezza garantita dal virtuale, esegeti e puristi dell’idioma e della toponomastica baresi, già dal primo episodio di Lolita Lobosco in onda su Raiuno per quattro domeniche (stasera l’ultima puntata), dopo la premessa di sdegno sulla qualità della serie televisiva, hanno vomitato critiche e dileggiamenti di ogni tipo a proposito della pronuncia di Luisa Ranieri (Lolita) e degli altri attori oltre che dell’antropologia che riproducono, come se tradire una baresità fatta di «o» chiuse ed «e» aperte laddove ce ne vorrebbero di chiuse e viceversa, fosse il maggiore dei delitti.

La verità è che Lolita Lobosco non è peggiore della gran parte di prodotti simili che si vedono sui canali Rai da trent’anni a questa parte. E uso non a caso una litote: infatti nel terzo episodio intitolato Spaghetti all’assassina (ebbene sì: me lo sono sorbito tutto), l’attendente Antonio Forte cita Manzoni e questa figura retorica usata nei Promessi sposi per alludere alla codardia di Don Abbondio. Un aspetto sapido, culturale, proprio un riferimento letterario (insieme a quello di Nabokov poco dopo) che sposta il racconto da un piano meramente folcloristico al livello sovranazionale dell’invenzione narrativa, costituita in questo caso dai romanzi di Gabriella Genisi. All’interno di questa dimensione Lolita Lobosco si ricongiunge a Montalbano, alla Signora in giallo e, perché no, a Maigret, rappresentandone la sorella un po’ freak, un po’ pecoreccia.

È PROPRIO il tradimento della baresità in favore della post-baresità (simile alla post-sicilianità di Montalbano) che io trovo interessante: vago riverbero di un ceppo, eco di «o» chiuse ed «e» aperte divenute «a» napoletane e poi fonemi bastardi arrivati da chissà dove. Ad un tratto inflessioni vagamente brasiliane si tramutano in milanese stretto: è cosmopolitismo (a prescindere che sia voluto o no dagli autori); il riscontro preciso, pieno di un luogo – così connotato folcloricamente – in un altrove, solo negli altrove apolidi. Fino a diventare onomatopee, fonosimboli storpi, scatologici, di quella dimensione meticcia, non-ariana, che è il romanzo o lo sceneggiato (anche di consumo), che per quanto difettosi, sbilenchi, banali possano essere, sono sempre meglio di una realtà, tanto più individuata territorialmente, di per sé insensata.