Alcuni sociologi e politologi sostengono che i simboli siano in grado, grazie al loro contenuto espressivo e alla loro capacità di sintetizzare un messaggio, di coinvolgere e mobilitare le masse. Il mondo del rock e del pop vive di musica tanto quanto di apparenza e ha saputo spesso mettere in campo un immaginario simbolico per sedurre e rendere sempre più fedeli i propri seguaci. Di questo apparato fanno senza dubbio parte anche i marchi, i loghi e le elaborazioni grafiche che identificano gli artisti. La musica contemporanea non solo si ascolta, ma si vive e si indossa e, in alcuni casi, si ostenta come un vessillo. Alcuni marchi legati al mondo del rock sono diventati brand internazionali di straordinario valore artistico e commerciale o simboli che identificano l’appartenenza a una tribù. I nuovi artisti spesso scelgono il loro logo prima di scrivere una sola canzone. L’uso di un carattere grafico o di un’immagine può segnare e definire la loro intera carriera. In alcuni casi i marchi sono stati in grado di creare un intero mondo parallelo a quello musicale e di vivere di una straordinaria storia a sé stante.

Semplice, ma memorabile. Il logo dei Black Flag è uno di quei simboli la cui popolarità ha di gran lunga oscurato la fama della band a cui faceva riferimento. Il gruppo nacque in California nel 1976 e si sciolse dieci anni dopo (andrebbe steso un velo pietoso sulle successive reunion). Furono anni turbolenti. Guidati dal chitarrista Greg Ginn e caratterizzati da una line-up totalmente instabile, i «bandiera nera», che a dispetto del nome erano anarchici antifascisti, dal 1981 ebbero come frontman Henry Rollins e divennero una forza dirompente nella nascente scena hardcore americana. Il loro segno distintivo era un punk isterico ed eclettico contaminato dal jazz. Le loro esibizioni live finivano quasi regolarmente in rissa. Il loro simbolo divenne inconfondibile: 4 barre nere parallele, uguali in altezza e larghezza, ma non allineate e leggermente spostate una rispetto all’altra. I Black Flag furono il primo vero brand dell’hardcore punk. Presentavano i loro concerti con locandine disegnate che oggi fanno parte della storia iconografica del rock. Erano disegni dissacranti, vignette comiche o grottesche che se la prendevano con i benpensanti, la società borghese, la religione, la polizia e che sembravano preannunciare che dove c’erano i Black Flag c’erano guai in vista. L’immaginario della band fu una delle scelte vincenti del gruppo ed era il prodotto della fantasia tormentata di un loro membro-ombra: Raymond Ginn. Fratello di Greg, era stato uno dei fondatori del gruppo di cui fu per breve tempo il bassista. Lasciò presto gli strumenti per dedicarsi all’arte e alla grafica con il nome di Raymond Pettibon. Da lui nascevano le locandine dei concerti e le copertine dei dischi. Fu lui a inventare lo storico logo che non rappresenta come tutti pensano quattro barre, bensì una bandiera nera mossa dal vento. Pettibon ha poi firmato negli anni decine di copertine di ellepì, la sua più celebre è forse quella di Goo lo storico album dei Sonic Youth del 1990. È ormai un nome noto nel mondo dell’arte contemporanea e ha esposto nei maggiori musei d’arte moderna e alla Biennale di Venezia. Al suo lavoro è stato dedicato anche un breve documentario realizzato dal Museum of Contemporary Art di Los Angeles. «Ancora prima di sapere chi fossero i Black Flag – dice Flea dei Red Hot Chili Peppers in una scena del corto – mi ricordo che camminavo per le strade di Hollywood e vedevo le loro locandine e mi chiedevo: ma che cazzo sono? Questa è roba pesante». Si narra che il logo dei Black Flag sia uno dei tatuaggi rock più riprodotti in assoluto. Esiste un intero libro fotografico, intitolato Barred for Life che raccoglie storie e foto di chi ha scelto di marchiarsi a vita con il simbolo della band. Tra le celebrità che hanno sulla pelle il marchio, oltre a Henry Rollins, Dave Grohl (che se lo fece da solo a 12 anni), Bryan Adams, Frank Turner e gli attori Edward Norton e Johnny Depp.

Il logo ufficiale dei Beatles, quello con la B maiuscola e la T allungata, nacque per puro caso. Fu Ivor Arbiter, gestore del negozio di strumenti musicali Drum City di Londra a metterlo giù di fretta quando vendette, nel 1963, una batteria a Ringo Starr. Schizzò il logo perché la band aveva espressamente richiesto, qualora fosse comparso in evidenza il nome della batteria (una Ludwig) che ci fosse anche il nome del gruppo. Arbiter scrisse su un pezzo di carta Beatles e mise in risalto la B e la T per enfatizzare il «beat». Vendette la batteria a Ringo. Per l’ideazione grafica passò alla storia, ma non divenne ricco visto che intascò un extra di appena 5 sterline. Ma c’è un altro logo, oggi onnipresente, per cui i Beatles sono forse responsabili: quello della mela. La Apple, ideatrice di iPhone e iPad è oggi un’azienda che raggiunge una capitalizzazione di 400miliardi di dollari. Nel 1968 la Apple Electronics era una divisione della Apple Corps Ltd. fondata dai Fab Four. Il legame tra i due marchi è stato a lungo dibattuto, anche in ambienti legali. I Beatles si trovarono «costretti» a fondare un’azienda dopo una consulenza fiscale che spiegò come creare un proprio marchio di business avrebbe fatto loro risparmiare due milioni di sterline. Nacque così, nel 1967, la Beatles Ltd. Paul McCartney però pensò che fondare qualcosa dal nulla fosse come tornare all’abc e quindi, ripescando tra i suoi ricordi d’infanzia, immaginò qualcosa di estremamente semplice: «A come Apple». Per il logo McCartney si ispirò ai quadri di René Magritte La camera d’ascolto e Il figlio dell’uomo che rappresentano mele verdi. Il disegno fu alla fine fatto da Gene Mahon, un designer pubblicitario, in collaborazione con l’illustratore Alan Aldridge, autore di tanti disegni beatlesiani. Nel gennaio 1968 la Beatles Ltd. diventava ufficialmente la Apple Corps Ltd. e il marchio della mela venne registrato in 47 paesi e in tutte le sue possibili declinazioni tra cui anche la Apple Electronics. Di fatto finì per istoriare soprattutto i dischi dei Beatles, ma come tutte le cose prodotte dal quartetto entrò nel mito. Il primo aprile del 1976 a Cupertino in California nasceva la Apple Computer Company fondata da due giovani genietti dell’informatica Steve Jobs e Steve Wozniak con l’imprenditore Ronald Wayne. I due Steve erano fan dei Beatles, ma l’idea della mela, si disse, veniva dalle manie dietetiche di Jobs. Non appena la Apple emerse come azienda promettente lo scontro legale con la mela beatlesiana fu quasi inevitabile. Nel 1981 un primo accordo fu stipulato con il pagamento da parte di Steve Jobs e soci di 80mila dollari e la promessa di starsene fuori dal mercato musicale. Con iTunes alla fine la Apple è diventata il mercato musicale e si è mangiata la mela sempreverde dei Beatles. Dal 2007 la compagnia fondata dai Fab Four ha dato in licenza i marchi alla compagnia californiana.

Quando i Rolling Stones decisero di identificarsi con un logo, i Beatles erano già storia e loro, rimasti la più grande rock band del pianeta, cercarono di dare un marchio alla loro leggenda. Gli Stones non erano soddisfatti dal design troppo blando che la loro casa discografica dell’epoca, la Decca, gli imponeva e cercavano qualcosa che li distinguesse. Jagger si rivolse così al Royal College of Arts di Londra dove incontrò uno studente che stava conseguendo un Master of Arts. Il giovane artista, chiamato John Pasche, appena vide di persona il rocker rimase visivamente impressionato dai tratti del volto e dalla sua caratteristica più celebre, la bocca smisurata. Da quel momento per l’illustratore fu un gioco da ragazzi. La caricatura della bocca e della lingua di Mick era un misto di sensualità, ironia e ribellione e divenne la nuova firma della band che in quel periodo si era definitivamente staccata dalla Decca e aveva fatto nascere una propria etichetta, la Rolling Stone Records. Il disegno fu stampato per la prima volta all’interno del disco Sticky Fingers, il celebre album con la zip in copertina, e accompagnerà il gruppo fino ad oggi diventando un brand universale che ha dato anche fortuna commerciale al costosissimo merchandising degli Stones. John Pasche divenne negli anni Settanta uno dei grafici di riferimento della scena rock firmando i poster delle tournée dei Rolling Stones nei primi anni Settanta, ma anche copertine e locandine per band come The Stranglers, The Who, Judas Priest, Art of Noise e Jethro Tull. Il disegno originale del logo fu acquistato a un’asta negli Stati Uniti per 92.500 dollari nel settembre del 2008 a un’asta dal Victoria and Albert Museum di Londra dove oggi è esposto. «È un logo iconico – ha detto uno dei responsabili del museo -. Uno dei più dinamici e innovativi loghi mai creati. Un’opera di un artista inglese per una band inglese. È bello che abbia trovato ora la sua definitiva casa a Londra».

Un gruppo che ha fatto della propria immagine, sin dagli esordi, una ragion d’essere. Una firma diventata un marchio finito su qualsiasi bene di consumo si possa pensare (e ancora di più). Il brand Kiss fu disegnato nel 1973 dal chitarrista della band Ace Frehley. Il musicista si ispirò al logo della precedente band di Gene Simmons e Paul Stanley, i Wicked Lester, la cui immagine grafica (pare creata da Stanley) era dominata da una «s» disegnata come un fulmine. Così accadde anche per le due «s» nel nome dei Kiss che danno dinamicità e potenza al marchio divenuto così celebre. La scritta non è mai cambiata anche quando i Kiss negli anni Ottanta pensarono, sbagliando, di poter abbandonare le loro maschere e di diventare una rock band come tante altre. Le due «s» furono però anche un problema. In Germania i due fulmini ricordavano troppo da vicino il logo in caratteri runici delle SS hitleriane. Fu così che per evitare le polemiche, solo per il pubblico tedesco, la scritta del gruppo divenne diversa: al posto dei due fulmini compaiono due lettere disegnate come due «z» rovesciate.

Un logo celebre come quello di tante rock band, ma appartenuto a un locale. Il Cbgb è stato, dagli anni Settanta fino al decennio scorso, il tempio underground della musica newyorkese. L’indirizzo 315 Bowery era il luogo sacro del punk e della new wave americana, la Mecca dell’undergrond della Grande Mela. Ma nella frizzante scena di Manhattan nessun locale di successo dura in eterno. Nel 2006 ha chiuso i battenti trasformandosi in una boutique dello stilista John Varvatos (vedi Alias del 9 ottobre 2010, pagg. 12-13). La sigla Cbgb vive nella leggenda e in un brand ormai onnipresente sulle magliette dei giovani che oggi frequentano concerti e festival punk. Nel locale tutto era un po’ paradossale, si sono consumati concerti epici e risse incontrollabili, ma il posto era nato, nelle intenzioni del fondatore Hilly Kristal, per ospitare «country, bluegrass e blues» da cui lo storico acronimo Cbgb. L’insegna, disegnata da Karen la moglie di Kristal, era una scritta assai vicina a un certo clima western e sarebbe stata perfetta per un saloon frequentato da cowboy. Ma è diventato un vessillo del punk e un marchio che riporta all’età dell’oro della ribellione rock newyorkese. Curiosamente il locale sfoggiava un’altra sigla sotto l’acronimo Cbgb: Omfug che significa «Other Music for Uplifting Gormandizers» cioè «altra musica per ispirati buongustai». Insomma un posto per palati fini che amavano gruppi e artisti come Ramones, Patti Smith, Television, Dead Boys, Fleshtones, Cramps, B-52’s, Blondie e Talking Heads.

C’era un’epoca in cui l’hip hop faceva paura. C’era un’epoca in cui i rapper non celebravano se stessi, ma cantavano la rivolta. E il loro simbolo era un uomo in un mirino: il logo dei Public Enemy. L’immagine iconica associata al gruppo rap guidato da Chuck D e Flavor Flav è stato parte della loro leggenda e riassumeva in un sigillo perentorio la loro visione di un’America in cui i giovani neri finivano troppo spesso nella linea di fuoco delle armi delle gang o della polizia. Il logo fu pensato dallo stesso Chuck D. «Lo disegnai nel 1986 – ha ricordato il rapper -. Ero diplomato in grafica e lo ideai per altre formazioni, ma quando i Public Enemy furono scritturati dalla Def Jam quello divenne il nostro logo. L’artista di New York, Eric Haze lo mise a posto per l’uscita dell’album Yo! Bum Rush the Show nell’87». Per molto tempo il simbolo fu frainteso e si pensò che l’uomo nel mirino fosse un poliziotto, in realtà era un giovane nero vestito alla moda dell’epoca e ricalcato da Chuck sul profilo di E-Love, rapper che faceva parte dell’entourage di LL Cool J. «All’epoca i b-boy amavano indossare cappelli modello fedora o quelli sportivi della Kangols, io semplicemente ricalcai la silhouette di E-Love da un’immagine presa da una fanzine chiamata Right On». Da quel momento in poi il partito del rap aveva il suo simbolo.

La storia di uno dei brand più riconosciuti della storia del rock è simile a quella di tanti marchi commerciali. L’indimenticabile scritta Ac/Dc è frutto del lavoro di un designer americano chiamato Gerard Herta e che negli anni Settanta si occupava della grafica delle copertine per l’etichetta Cbs. «Nel 1975 – ha raccontato l’artista – avevo disegnato la copertina di un disco dei Blue Öyster Cult intitolato On Your Feet or on Your Knees. Sulla copertina c’era una chiesa ecosì decisi di fare delle ricerche sulla grafica delle lettere bibliche andando a rivedere la Bibbia Gutenberg, il primo libro stampato. Ripresi quella grafica e decisi di rendere le lettere in metallo come se fossero un marchio di una macchina, perché in quella copertina compariva anche una limousine». Nel 1976 Gerard Herta disegnò poi la grafica dell’album degli Ac/Dc High Voltage e decise di incorporare nel logo un fulmine per rappresentare la scarica di elettricità che riassumeva la filosofia del disco. Ma la scritta non lasciava ancora il segno e il vero logo della band nacque l’anno dopo quando il gruppo australiano pubblicò Let There Be Rock. Il riferimento biblico del titolo ricordò a Herta il lavoro fatto per i Blue Öyster Cult. Decise così di riprendere il lettering aggiungendo spessore alle lettere e scegliendo un colore arancione. Il logo rimase per sempre. «Alla fine degli anni Settanta – ha ricordato Herta – questo stile tipografico divenne di moda e venne definito ’Goth’. Forse in relazione proprio agli Ac/Dc e ai Blue Öyster Cult si cominciò ad associare questa grafica con la musica heavy metal. Ma dal mio punto di vista è sempre stato più ’Gutenberg’ che ’Goth’». Herta è poi passato dal rock ai prodotti di consumo, firmando loghi come quello della Pepsi, del profumo Eternity, del canale tv Hbo e ideando la grafica di diverse testate di giornali. Ma nessun logo è stato indossato, amato e riprodotto come quelle quattro lettere con un fulmine nel mezzo.

Nell’eterna corsa a cambiare sempre pelle e a sfuggire alle convenzioni, nel 1992 Prince, per il suo quattordicesimo album, decise di cancellare il proprio nome e di adottare un logo per presentarsi al pubblico. L’immagine, una rielaborazione di un simbolo astrologico, diventava così alfabeto e l’artista si rendeva indefinibile. La mossa però era dettata più dallo spirito polemico del folletto di Minneapolis che da un sincero desiderio di cambiare pelle. Ai tempi infatti il cantante era ai ferri corti con la sua casa discografica, la Warner, e non perdeva occasione per farlo notare. Non potendo uscire dal contratto che lo legava all’etichetta, scelse di cancellarsi il nome rendendo difficile la promozione del disco. I giornalisti non senza ironia iniziarono a chiamarlo «the artsit formerly known as Prince» (l’artista noto un tempo come Prince), qualcuno si inventò la sigla Tafkap e qualcuno per facilitare le cose lo ribattezzò The Artist. Il tutto era reso ancora più paradossale e caotico perché uno dei singoli tratti da quel disco si intitolava My Name Is Prince, il mio nome è Prince. Nella sua fretta di uscire dal contratto con l’odiata Warner, Prince pubblicò a quell’epoca cinque album in due anni, alcuni contrassegnati dal nuovo logo, inondando il mercato e annoiando il pubblico. Alla fine la Warner lo lasciò andare senza tanti rimpianti e Prince trovò un nuovo contratto e dal 2000 decise di riappropriarsi del suo nome. Il simbolo è finito nel 2010, seminascosto, nel disegno di copertina realizzato dal pittore Kadir Nelson per il primo disco postumo di Michael Jackson, una citazione non apprezzata affatto dal bizzoso Prince che ricorse a vie legali per far cancellare il marchio.

Gli Iron Maiden nella loro carriera hanno probabilmente fatto più soldi con le magliette che con i dischi pur avendo venduto milioni di album. Questo successo è senza dubbio dovuto alla fortuna del personaggio che li accompagna dall’inizio della loro carriera: Eddie. Il mostriciattolo, una sorta di zombie senza pelle, è stato rappresentato in tutte le loro copertine e oggi sta al metal come il cavallino della Ferrari sta al mondo delle automobili. Eddie comparve agli albori della band per idea del manager Dave Beasley che si inventò una testa che sputava sangue da esporre durante i concerti. Successivamente l’artista Derek Riggs riprese l’idea e ridisegnò Eddie dandogli anche un corpo e ideando un vero e proprio personaggio a tutto tondo. Il debutto grafico avvenne sulle copertine dei primi singoli della band. Per il 45 giri di debutto The Sanctuary Eddie si cimentava nell’omicidio, accoltellando a morte l’odiato premier britannico di allora, Margaret Thatcher. Era il 1980 e la trasgressione politica del punk faceva sentire ancora la sua influenza. Ma i Maiden e Eddie abbandonarono ben presto la ribellione per dedicarsi ad avventure tra l’horror, l’occultismo e la fantascienza. Tuttavia Eddie si ritrovò ancora coinvolto in questioni politiche verso la metà degli anni Ottanta quando divenne il simbolo di un gruppo lealista paramilitare nord-irlandese, gli Ulster Freedom Fighters, che lo ritrassero in diversi murales di propaganda. A insaputa dei Maiden, Eddie si era trasformato da killer anarchico a simbolo della fedeltà al governo inglese.