«Meraviglie urbane»: così Germano Celant aveva intitolato il suo lungo saggio per la mostra di Claes Oldenburg ai Musei Civici di Venezia del 1999. Titolo perfetto e assolutamente calzante per questo grande artista pop scomparso lunedì a New York, a 93 anni (era nato a Stoccolma nel 1929).

Il titolo, Oldenburg se lo era sempre spartito con Coosje von Bruggen, la sua seconda moglie, morta nel 2009, con la quale aveva realizzato un felice binomio, che dalla vita privata scavallava poi nel lavoro, attraverso la reinvenzione di un’arte pubblica, audace ma alla portata di tutti.

SIN DAL 1959 OLDENBURG aveva messo al centro del suo lavoro il quotidiano, la strada, l’oggetto: ancorandosi alla quotidianità delle cose, sapeva far intraprendere alle cose stesse delle avventure nuove e inaspettate. Spiegava così le sue scelte: «Sono per un’arte che tragga le sue forme direttamente dalla vita, che si intrecci e si espanda fino all’impossibile e si ingrandisca e sgoccioli, dolce e stupida come la vita stessa».

Oldenburg aveva partecipato a pieno titolo alla nascita e all’esplosione della pop art con due mostre personale allestite alla Galleria di Leo Castelli nel 1961 e 1962. Il suo approccio però era sempre stato contrassegnato da una profonda ironia che lo portava quasi per istinto ad alleggerire i suoi interventi, a svuotarli di retorica e di sovrasignificati.

Le sue «soft sculpture» degli anni ’60 sono doppiamente emblematiche: sono realizzate con materiali morbidi ed equiparabili quasi a giocattoli, e quindi sono una desacralizzazione dell’oggetto artistico. Dall’altra però sono frutto di un preciso approccio concettuale che garantiva ad Oldenburg coerenza e rigore nel suo anti convenzionalismo.

In quegli anni, mentre i suoi colleghi si davano al commercio del mercato ricco, lui aveva preso in affitto un negozio sulla East Second Street che chiamò Ray Gun Manufacturing Company. Il negozio era aperto al pubblico dal venerdì alla domenica. Gli oggetti d’arte in vendita, realizzati e dipinti a mano, erano grumosi e indisciplinati, non assomigliavano a quelli prodotti in serie che pretendevano di rappresentare, né condividevano l’aspetto riconoscibile delle belle arti. E, soprattutto, erano alla portata di tutti.

La stagione degli interventi pubblici nelle città, quella delle «meraviglie urbane», era iniziata nel ’67 con un buco scavato a Central Park, davanti al Metropolitan. Un buco di forma rettangolare coperto il giorno stesso: «Placid Civic Monument», era il titolo di quel monumento assente, perché invisibile.

È INTERESSANTE RILEVARE come dietro quel primo intervento ci fosse l’idea che la scultura per essere debba in qualche modo inabissarsi. O che la scultura abbia comunque a che fare con la terra sui si appoggia e da cui sbuca, secondo la modalità che caratterizza quasi tutti i suoi interventi più celebri, realizzati nelle città di mezzo mondo. Far venire fuori gli oggetti dalla terra, come se rompessero il guscio dell’ovvietà, è restituire loro una capacità di sorprendere, che viene poi accentuata dalle dimensioni monumentali che vengono loro conferite.

Accade così anche nel più celebre intervento italiano della coppia Oldenburg-von Bruggen, L’ago e il filo, davanti alla Stazione di Piazza Cadorna a Milano. Si tratta di un monumento che dialoga con la piazza, riallestita in contemporanea da Gae Aulenti a inizi 2000, e che documenta un’altra caratteristica del loro modo di porsi nei contesti in cui sono stati chiamati ad intervenire. È la sostanziale e convinta simpatia nei confronti delle città e delle loro specifiche caratteristiche: la tradizione tessile nel caso di Milano.

Scriveva Celant, che Oldenburg-von Bruggen ogni volta stabiliscono «un rapporto amoroso che concilia il bello e il brutto, il sapiente e l’ignorante, il kitsch e il design, il personale e il sociale». La loro grammatica si fonda su un’oggettività limpida: evitano sempre sovrapposizioni surreali, personalistiche o oniriche. Si attengono alla «cosa» individuata, che nella sua semplicità e nudità viene chiamata a salire di scala, in misura allegramente iperbolica e a diventare così oggetto di meraviglia.