Un ambiente scurissimo che mima le palafitte, imbrigliato da una rete di impalcature. E poi due spazi percorribili, inferiore e superiore, dove l’architettura è disegnata dai riflessi dell’acqua nera e la percezione sbanda, i sensi si disorientano. Un’installazione quella di Giorgio Andreotta Calò (nato a Venezia nel1979, vive e lavora ad Amsterdam) che nega la luce di Venezia, inverte la marcia e immerge il visitatore nella nigredo alchemica, il disfacimento fertile della materia prima della rinascita.

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SUPERATA LA NOTTE dell’io, si approda in una gigantesca officina in bilico tra archeologia e futuro: è il laboratorio-navicella spaziale costruito da Roberto Cuoghi (Modena, 1973, lavora a Milano) in cui si assemblano statue votive a immagine di Gesù, in virtù di una imitatio Christi fluida e poco addomesticata dalla fede. Si entra in tunnel iridescenti e si intravedono su tavoli da camera operatoria le sculture in pezzi o intere, alcune conservate in freezer, ibernate come fossero un reperto del presente, altre in frammenti pronte a riannodare i loro legami per farsi sagoma.

L’ascesi non è però possibile in Laguna e il testo medievale a cui si ispira il lavoro viene interpretato come un ciclo infinito di vita e decomposizione della materia. Usciti da quella fabbrica di metamorfosi, che tratta l’iconografia classica della divinità come una tela di Penelope, disfacendola e ricostituendola, ci si imbatte in una seduta di autocoscienza sulle sorti della terra, propiziata da Adelita Husni-Bey (Milano, vive a New York) e dai suoi tarocchi. Le carte rituali le ha disegnate lei,ispirandosi alle proteste dei nativi Lakota contro la costruzione di un oleodotto nella loro riserva.

SIAMO ALL’ARSENALE, dentro il Padiglione Italia guidato da Cecilia Alemani, italiana ormai newyorkese, che ha scelto di richiamare alla memoria le parole di Ernesto de Martino. Ha dedicato la sua mostra a quel Mondo magico che assicurava l’ancorarsi dell’essere umano – soprattutto se spinto ai margini sociali – al mito e ai riti apotropaici.

Solo così si può riaffermare una propria presenza e riconquistare una «porzione» esistenziale in mezzo ai flutti di un’epoca tempestosa (il libro dell’antropologo baluginò durante la seconda guerra mondiale e uscì, catarticamente, subito dopo, nel 1948).

Con queste premesse e con le opere dei tre artisti – che interpretano la magia come potere immaginativo di altri luoghi abitabili – il padiglione italiano, pur nella sua autonomia, va incontro all’istanza principale di questa Biennale firmata da Christine Macel: la ricerca di un’origine di sé, la raccolta dei semi (troppo dispersi) della propria storia e il desiderio di un rinnovamento – anche non necessariamente a imitatio Christi – che inventi nuove forme di comunità. L’Italia è in odor di Leone d’oro. E se anche non fosse, si candida a rimanere impressa nel ricordo, dopo una serie di mostre anemiche e prive di coerenza simbolica.