Ci ricorderemo per sempre una voce baritonale e roca, profonda, emergere come luce da uno sfondo scuro. È quella di Andrea Camilleri, eterno narratore, che presenta e spiega al pubblico televisivo la fabula che presto andrà in onda. «Era necessario che Montalbano non rimanesse persuaso che… »; «In realtà questa sceneggiatura mette insieme due storie distinte, ma entrambe accadute, che tra di loro hanno un legame nascosto…».

SONO FRASI RECUPERATE dal ricordo e citate a senso (come vuole la tradizione orale) con le quali, vestendo i panni dell’aedo, o del cantastorie se si preferisce, Camilleri si affacciava dallo schermo televisivo. Quella oscurità dello sfondo era solo apparente, un’illusione scenografica che richiamava l’antica immagine della caverna, aggiornata nell’immagine della biblioteca. La sua voce e la sua fisionomia è facile immaginarla accompagnata e avvolta da una folla danzante di libri. I suoi. Numerosissimi e vari, romanzi e testi teatrali, più lontana nel tempo anche la poesia. Libri destinati a percorre una traiettoria di visualizzazione e oralizzazione, soprattutto tramite la traduzione in film.

Camilleri nasce il 6 settembre del 1925 a Porto Empedocle e in Sicilia vive finché nel 1949 si trasferisce a Roma, per seguire i corsi di regia dell’Accademia d’arte drammatica Silvio D’Amico. E a questo si dedica per lunghi anni mettendo in scena Beckett, Strindberg e Ionesco o riducendo a teatro la poesia di Majakovskij. Poi, nella seconda metà degli anni ’50 viene assunto in Rai, dove per anni avrebbe lavorato per la produzione (e la sceneggiatura) di molti sceneggiati televisivi, fiction e serie diverse. Organizzare storie, ordinare parole, proporre favole, renderle visibili e parlabili, trasportare il racconto in un altro spazio, piccolo o grande che sia, rendere la parola azione, dramma. Deve essere questa l’officina in cui Camilleri è diventato maestro. È passato attraverso diversi ruoli nella fabbrica del racconto, con lunghi anni di militanza prima di diventare autore. L’autore che tutti conoscono.

QUESTA NUOVA STRADA si apre con un romanzo del 1978, Il corso delle cose, che già dal titolo rivela l’intenzione di lavorare, tramite una storia poliziesca, sull’inesplicabile procedere dei fatti e la difficoltà di accettarne il destino. Sembra ancora presto per il successo, ma non troppo presto per individuare un luogo, Vigata, che diventerà scenario del secondo romanzo, Un filo di fumo del 1980, e poi di molti altri. Il suo immaginario si apre in quegli anni su una Sicilia tardo ottocentesca e post-unitaria, riprendendo fatti di cronaca e lavorando di fantasia: è da questa sorta di reminiscenza di ambienti e personaggi che nasce la piccola serie di romanzi che accompagneranno il successo dello scrittore fino ed oltre l’invenzione del personaggio che lo ha reso celebre, Salvo Montalbano. La forma dell’acqua esce nel 1994.

QUESTO PERSONAGGIO, tenero e integro, audace e trasgressivo, semplice e geniale, sembra arrivare sulla pagina come se incarnasse un attore che, prima di mostrarsi, avesse fatto centinaia di prove. Naturale ritrovarselo sullo schermo, e naturale vederlo in azione in altri romanzi che, da un certo punto in poi, si succedono come episodi televisivi. La forza di creare un cortocircuito tra cinema televisivo e scrittura è il grande segreto delle sue invenzioni, su cui la critica sta già da tempo lavorando per individuare condizioni e cause.

Tra queste c’è sicuramente la lingua inventata da Camilleri, che diventa il suo marchio, la sua peculiarità più tangibile. Siciliano e lingua si fondono in un continuo inestricabile, perfettamente intellegibile ad ogni lettore: il contesto e la posizione delle parole rendono quasi sempre inferibile il significato, anche di termini che alla prima suonerebbero strani. Taliare, spiare, magari, accattare, cabbasisi, pirtuso, scantare, per dirne solo alcuni di ormai familiari anche al grande pubblico, anzi già entrati in un certo senso nella coscienza lessicale della lingua italiana, appetibili perché la fanno più estesa. Bisogna insistere sul fatto che la lingua di Camilleri non è tanto una mimesi del dialetto, non produce un miscuglio linguistico.

SPESSO INTERE FRASI e forme dialettali, o per discorso diretto o per citazione di modi dire, ricorrono nel corso della scrittura e amalgamate all’italiano, ma altrettanto spesso assumono regole di formazione originali, che si discostano dal comune parlato che mischia siciliano e italiano. Non bisogna sottovalutare l’importanza di questa innovativa maniera di proporre la lingua italiana, che si inserisce in una vasta attività pseudomimetica che ha interessato, con altri gradi e in altre situazioni, molti autori della letteratura italiana. Tutto ciò è popolare o è diventato popolare ma non è stato né è banale.

CAMILLERI ERA COMUNISTA, sin da ragazzo e, secondo varie sue dichiarazioni, ha continuato ad esserlo: nella cronaca politica di questi ultimi anni, forte della sua autorevolezza, è intervenuto varie volte a difesa dei principi costituzionali dello stato, come la libera espressione, l’equità della giustizia, la separazione dei poteri. Non fu certo personaggio politico, perché la sua militanza, se mai ne immaginò una per sé, fu quella culturale, nel proporre una mediazione d’autore tra l’officina dell’invenzione e il grande pubblico. I tenaci e resistenti racconti già espressi dall’umanità con il mito e la fiaba, nelle storie di Camilleri, così com’è sempre successo, sembrano tornare nelle scene, negli spazi e nel linguaggio di oggi: e certo il cantastorie siciliano, attraverso il suo repertorio, è riuscito abilmente a incarnare la storia di tutti, in attimi caldi e convincenti, emozionati e riflessivi.
Sulla trama di questa nascosta continuità tra figure antiche e immagini contemporanee, Camilleri ha voluto infine scrivere un monologo autobiografico, andato solo una volta in scena nel teatro greco di Siracusa l’11 giugno del 2018: Conversazione su Tiresia. Voce di chi non vede, voce per chi non vuole né ascoltare né vedere.