Con la presentazione da parte del governo del disegno di legge costituzionale la riforma del bicameralismo entra nel vivo del confronto politico. E ciò non può che essere accolto con soddisfazione. Non solo perché di una riforma dell’assetto bicamerale vi era bisogno da tempo, ma anche perché questa volta il percorso di riforme, dopo le fallimentari avventure costituzionali del governo Letta, viene coerentemente avviato nel solco dell’art. 138. E non si tratta solo di “forma”, posto che anche l’obiettivo di fondo perseguito dal disegno di legge appare ampiamente convincente: la fine dell’anomalia italiana del bicameralismo perfetto e la rimodulazione del rapporto di fiducia tra una sola Camera (quella dei deputati) e il Governo.

Così come non sfugge alla nostra attenzione che dopo anni di abusi e di ubriacature del termine “federale”, il disegno di legge si sottrae abilmente a questa sorte, scansando le mode istituzionali fino a oggi in voga. Di federale nella riforma non v’è nulla. E anzi preso atto dei fallimenti della precedente revisione del titolo V il progetto di riforma parrebbe intenzionato a procedere ad un vistoso (e per molti aspetti opportuno) ri-accentramento delle materie a livello statale (coordinamento della finanza; ordinamento scolastico; distribuzione dell’energia; tutela della salute … ). E anche le norme di contorno parrebbero confermare tale impianto: ricompare l’interesse nazionale, non c’è più la potestà ripartita Stato-Regione (causa dell’impennata del contenzioso costituzionale di questi anni) e nemmeno la cd. devolution debole (art. 116.3 Cost.).

Ciò che però non si comprende è come questo processo di accentramento delle funzioni statali possa mai raccordarsi con la composizione territoriale del futuro Senato. Cosa hanno a che fare presidenti di Regione e sindaci con l’istituzione di una Camera che nulla ha di territoriale (salvo il nome di “Senato delle autonomie”)? E quale il loro ruolo specifico all’interno di una Camera dotata di funzioni essenzialmente consultive e di una azione normativa che non va oltre l’approvazione delle leggi costituzionali?

Se obiettivo del Governo era quello di “rottamare” il Senato, si sarebbe allora più coerentemente potuto optare per la soluzione monocamerale, sulla scia dei modelli adottati in altre democrazie europee (Danimarca, Finlandia, Grecia, Portogallo, Svezia, Norvegia…).

Sia ben chiaro l’idea di un Senato delle Autonomie non ha nulla di eversivo. In passato molti di noi (compreso chi scrive) avevano ritenuto che per compensare gli effetti distorsivi prodotti dalla riforma del titolo V fosse necessaria una ridefinizione del ruolo del Senato (sul modello del Bundesrat tedesco). Oggi, però, nel disegno di legge quel titolo V non c’è più. E gli squilibri che investono il sistema (e che lo stesso progetto in parte disvela) sono altri e di altra natura. E riguardano, in particolare, i rischi di concentrazione del potere politico nelle mani del capo del Governo (che adesso avrà a sua disposizione anche “la tagliola”), le maldestre manovre di restaurazione “coattiva” del bipolarismo, i tentativi di espulsione delle forze politiche minori dal quadro politico. E tutto ciò all’insegna di una costante manipolazione dell’etica pubblica che, nel puntare a ridurre indiscriminatamente (a prescindere dai contesti e dalle funzioni) i costi della politica e della democrazia, rischia di consegnarci un futuro senza politica e senza democrazia.

La riforma del Senato è oggi parte integrante di questa offensiva populista. Non a caso, nel senso comune, essa viene recepita come una sorte di sfida risolutiva tra innovazione e conservazione. Da una parte i difensori dei privilegi e degli stipendi dei senatori, dall’altra i paladini di un Senato senza costi e senza indennità. In mezzo ci sono però i delicati congegni dell’architettura istituzionale delineati dalla Costituzione repubblicana che rischiano di essere stritolati in questa morsa.

Lo schema del Governo andrebbe pertanto profondamente corretto se si vuole provare a superare, senza strappi e senza rotture, l’attuale condizione di impasse. E una coerente soluzione in questa direzione potrebbe essere rappresentata dall’istituzione di un Senato delle garanzie. Una camera a composizione ridotta, ma legittimata a concorrere all’esercizio del potere normativo ogni qual volta si tratti di legiferare sui diritti, sul sistema elettorale, sulla riforma della Costituzione. E ciò al fine di sottrarre (quanto meno) diritti, democrazia politica e Costituzione alle perversioni del maggioritario e all’inquietante dilatazione dei poteri del Governo oggi in atto.

Ma se questo è l’obiettivo da perseguire è evidente che le suddette funzioni non possono essere affidate, in ordine sparso, a presidenti e rappresentanti di Regioni, sindaci e senatori “presidenziali”. Per realizzare tali finalità è necessario un Senato democraticamente legittimato e pertanto eletto direttamente dai cittadini con il sistema proporzionale.

La blindatura e i ricatti imposti al confronto parlamentare non paiono tuttavia consentire vie d’uscita di questa natura. Altra è la direzione imboccata a tutta velocità dal Governo. Una direzione sconclusionata e debole, perché ricalcata sui logori schemi dell’ingegneria istituzionale italiana. Quegli stessi schemi che gli strateghi delle riforme si ostinano a propinarci da oltre trent’anni incuranti del tempo e delle trasformazioni del mondo.