In una giornata di primavera l’archeologo Sir Leonard Woolley, che stava indagando dal 1936 nello Hatay turco il sito di Tell Atchana, l’antica città di Alalakh, riportò alla luce, sotto il pavimento di un annesso del tempio di Ishtar, una statua di magnesite bianca alta 1,06 metri, la quale mostrava un uomo seduto con grandi occhi, lunga barba e una mano sul cuore. Una lunga iscrizione cuneiforme avvolgeva tutta la statua. Era il 21 maggio 1939.
L’archeologo britannico, eccitato dalla scoperta, scrisse in un dispaccio con toni entusiastici: «Una fossa di immondizia presso il tempio ci ha sorpreso molto. Da esso proveniva una statua di pietra bianca alta poco più di un metro di un re hittita, una figura seduta; la testa e i piedi erano rotti ma, fatta eccezione per una parte del piede, la statua è completa e in ottime condizioni e anche il naso è appena scheggiato. La figura è letteralmente ricoperta dalla testa ai piedi di un’iscrizione cuneiforme che inizia su una guancia, attraversa la parte anteriore e un lato del corpo e termina nella parte inferiore della gonna, poco più di cinquanta righe di testo. Nulla di simile è mai stato trovato prima».
Si trattava di una buca scavata nel pavimento di un vano, piena di terra e grandi pietre, nella quale era stata deposta la statua. La testa mozzata era posta accanto al corpo, insieme a due frammenti più piccoli, uno di barba e l’altro di piede. Poco lontano da lì, un trono di basalto con due leoni si rivelò essere il suo zoccolo, poiché la scultura vi si incastrava perfettamente: Woolley riferisce di essere praticamente certo che essa fosse sul trono quando il tempio fu distrutto da un nemico che devastò l’intero edificio. Successivamente qualcuno si prese la briga di nascondere la statua, in stato frammentario, in una buca scavata frettolosamente sotto il pavimento della stanza, probabilmente per preservarla da ulteriori profanazioni.
La superficie dell’opera, sebbene apparisse molto levigata, era in condizioni deplorevoli, in molte parti era così soffice che cedeva sotto il minimo tocco. Per evitare di distruggere ogni dettaglio del manufatto, l’archeologo lo trattò con una soluzione di cellulosa applicata con un vaporizzatore e poi con soluzioni più forti stese con spazzole con peli di cammello. Il trattamento finale fu effettuato al British Museum, dove la statua fu trasportata.
Il sito di Tell Atchana nella fertile pianura di Amuq, vicino al fiume Oronte, era stato scelto da Woolley perché si trovava in un importante crocevia sulle maggiori rotte commerciali. Durante l’esplorazione archeologica, fra il 1936 e il 1949, dalla terra affiorò un’intera civiltà. L’archeologo, attraverso lo scavo di 17 livelli che andavano dal Bronzo Antico al Bronzo Tardo, mise in luce anche i resti di due complessi palaziali incendiati e archivi di testi cuneiformi (nei livelli VII e IV).
La decifrazione e pubblicazione dell’iscrizione in accadico, a opera di Sidney Smith nel 1949, rivelò che la statua rappresentava Idrimi, un sovrano che regnò ad Alalakh nel XV secolo a.C., discendente della famiglia reale di Aleppo, capitale del regno di Yamkhad; uno dei principali regni amorrei del Vicino Oriente, che verso il 1800 a.C. unificò la Siria settentrionale dal Mediterraneo all’Alto Eufrate. Idrimi, infatti, indossa il tradizionale costume dei re di Yamkhad con una tiara ovoidale e un mantello a orli rigonfi. Le 104 righe di testo scritte in prima persona, in forma autobiografica e con toni favolistici, raccontano l’avvincente vita del giovane Idrimi dal cuore avventuroso, il più piccolo di sette figli, il quale dopo essersi distinto per doti di iniziativa e audacia ascende al trono di Alalakh.
L’incipit rivela immediatamente l’identità della statua: «Io sono Idrimi, figlio di Ilim-ilimma, servo di Adad, Khebat e Ishtar signora di Alalakh…». Idrimi narra con sincerità e pathos il dramma dell’esilio: «In Aleppo, mia casa paterna, accadde una volta una grave ribellione sicché noi fummo costretti a fuggire presso gli uomini della città di Emar, parenti di mia madre…». Ma il giovane non potendo tollerare di sottomettersi alla gente di Emar e passare dallo status di principe a quello di schiavo, distinguendosi dai fratelli maggiori, parte in cerca di fortuna: «Presi i miei cavalli, il mio carro, il mio auriga e mi diressi nel deserto, entrando nel territorio dei nomadi Sutei. Colà pernottai nel carro coperto. Il giorno dopo ripartii e arrivai nella terra di Canaan…». Ad Ammiya, in terra di Canaan, incontra gente di Aleppo che lo riconosce come figlio del re. Idrimi inizia così a costruirsi un certo seguito, si trattiene lì per sette lunghi anni dandosi al brigantaggio e praticando la divinazione: «Per sette anni rimasi insieme ai Habiru (fuoriusciti) liberando uccelli da presagio e esaminando le vittime sacrificali, finché nel settimo anno Adad si volse verso di me. Allora fabbricai dei battelli, vi feci salire i miei soldati, mi diressi per via mare alla terra di Mukish e presi terra di fronte al monte Casio». Dopo averlo messo a dura prova, il dio Adad al settimo anno diventa favorevole e lo fa sbarcare nel monte Casio, antico Sapanu, sede del dio Adad-Baal Zephon. Così Idrimi, dopo aver stretto un patto di alleanza con Barattarna re di Mitanni, sotto la sua protezione occupa la città di Alalakh e diviene re. Continua il racconto con la spedizione vittoriosa contro il paese di Khatti, di come egli costruisce il suo favoloso palazzo reale e le mura della città, con i prigionieri e il bottino sottratti agli hittiti, assicurando al suo regno stabilità e pace. L’epilogo contiene la benedizione per lo scriba Sharruwa, autore dell’iscrizione, e una formula di maledizione per chi oserà danneggiare la statua. Infine, sulla guancia destra di Idrimi, le ultime righe dell’iscrizione sembrano parole appena uscite dalla bocca del re, un fumetto ante litteram: «Sono stato re per trent’anni, ho scritto le mie imprese sulla mia statua perché tutti le vedano e mi benedicano».
Questo racconto, come quello delle iscrizioni reali, incarna un genere letterario preciso con finalità commemorativa, celebrativa e apologetica. È il racconto di un dramma catartico, la storia di un giovane eroe pieno di coraggio che grazie all’intervento divino è in grado di imporsi e fondare una dinastia, rivelando che all’epoca nelle corti cananee si attribuiva grande importanza al valore rispetto ai diritti acquisiti per discendenza.
La storia di Idrimi, inoltre, mostra sorprendenti analogie con quella biblica del re David (X secolo a.C.). Anche David, figlio di Jesse, ultimo di sette fratelli, perseguitato da Saul, è costretto ad abitare il deserto e a darsi al brigantaggio fra popoli seminomadi e come Idrimi pratica la divinazione. Prescelto dal Signore, anch’egli dopo essersi stabilito a Ebron, e aver ricevuto il consenso di tutti gli anziani di Israele, occupa la città di Gerusalemme, stringe alleanze con i re vicini, affida il culto al figlio minore Salomone e infine viene riconosciuto re da tutte le città di Giuda.
Sebbene la statua di Idrimi risalga al XV secolo a.C. (IV livello), fu scoperta nel livello IBW (fine XIII-inizio XII a.C.) relativo alla fase finale di utilizzo del tempio. Evidentemente essa rappresentava un cimelio sopravvissuto per circa due secoli. Posta nel tempio, era venerata nell’ambito del culto degli antenati regali divinizzati, come rivela anche la posizione seduta in trono, tipica dei re defunti e divinizzati, nota dalla glittica. La scultura, oltre a essere stata oggetto di devozione, era un dispositivo narrativo di propaganda politica in grado di celebrare, tramandare e legittimare il potere della casa regnante.
Ci guarda Idrimi, immobile con la mano destra sul cuore nella sua teca di vetro della galleria 57 del British Museum a Londra, con i suoi grandi occhi dall’orizzonte di 3500 anni fa, ha l’aria perplessa: il mondo non è cambiato, i suoi fratelli siriani dopo millenni vivono ancora oggi la stessa condizione di esuli.