Ricordando, in queste ore, con intensità e dolore Valentino, mi viene in mente il fermo ma dolce insegnamento di Rosa Luxemburg: «Abbiamo molto da fare e, quindi, molto da studiare».

Valentino lo ricordo così sin dal 1970: spontaneamente gramsciano, parte organica di un intellettuale collettivo. Profondamente progettuale, mai spontaneista, ma amante dell’«azzardo programmatico», fautore dell’organizzazione strutturata ma fortemente democratica della soggettività antagonista. Un dirigente comunista «vero», di grande equilibrio. Rigoroso ma non severo. Grande formatore di ragazze e giovani. Arguto, colto, amante del paradosso, del nocciolo di verità che esso sempre cela. Lo ricordo, nelle nostre interminabili ed impegnate riunioni a piazza del Grillo, al partito, al giornale, sempre sereno, mai, però, arrendevole. Sapeva, infatti, coniugare lo «spirito di scissione», il punto di vista sulla società, con la ricerca costante dell’unità possibile.

Odiava il «fazionalismo», il frazionismo. Ma ancor più il «disperazionismo». Non ricordo mai di avergli sentito dire, anche di fronte a sconfitte serie, che non c’era più niente da fare. Ricercava sempre le faglie, i punti di rottura di questo immane magma del capitalismo contemporaneo. Discutemmo molto, ovviamente, nei primi anni ’70, dell’«uscita a sinistra» dallo stalinismo. Discutemmo molto, entrambi meridionali, anzi «euromediterranei», sull’attualità della nuova «questione meridionale».

Valentino, ora, non c’è. È più sola la democrazia costituzionale. È più solo il comunismo critico, che rifiuta ogni dogmatismo. Siamo più soli.

Ma Valentino Parlato ci ha insegnato a non arrendersi al senso comune dominante anche (spesso) a sinistra. Continuiamo e continueremo a rovistare, con spirito di ricerca, nella nostra «cassetta degli attrezzi».