La natura funziona non sulla omogeneità, sulla regolarità, ma sulla diversità, anzi, come oggi la chiamano, sulla biodiversità. La diversità ha accompagnato tutta l’evoluzione sulla Terra, da quando le prime forme di vita, estremamente semplici, si sono formate nel brodo primordiale dalla combinazione e trasformazione di molecole organiche estremamente semplici, ma dotate di tutti gli atomi, gli ingredienti, necessari per le cellule capaci di riprodursi. Chi ripercorresse la storia della vita troverebbe dovunque una voglia di fantasia e di cambiamento, dalla quale dipende proprio la conservazione ed estensione della vita stessa. È questo uno dei misteri più disturbanti per coloro che cercano di capire la natura e di appropriarsi delle sue forme per fini commerciali.

La diversità si trova dovunque nel mondo circostante: il prato, il bosco, anche le stesse zone apparentemente aride, le acque, dovunque esiste la vita. È difficile dire perché la vita si comporta così, ma certamente dalla diversità dipendono la sopravvivenza e la stabilità degli ecosistemi. L’attentato alla diversità biologica è cominciato con la rivoluzione del neolitico, quando i nostri antichi predecessori, diecimila anni fa, hanno scoperto che alcune piante potevano essere coltivate e riprodotte in un terreno, che alcuni animali potevano fornire carne e latte, una volta che fossero catturati e allevati e fatti riprodurre a fini dell’alimentazione umana. I nostri predecessori hanno così scelto le piante e gli animali che si prestavano meglio a fini alimentari perché fornivano una maggiore quantità di sostanze nutritive per unità di superficie coltivata e perché fornivano sostanze più facilmente conservabili e digeribili, e hanno trascurato le altre. Le coltivazioni e gli allevamenti intensivi hanno fornito più merci alimentari, agricole e zootecniche, a basso prezzo, ma hanno finito per appiattire la natura, al punto che questa guerra alla diversità della natura ha cominciato a ricadere su chi l’aveva intrapresa a fini di profitto; si è visto che, dopo qualche tempo, le nuove coltivazioni e gli allevamenti diventavano meno fertili, le speranze di resa economica diminuivano.

Lo stesso ragionamento vale quando viene distrutta la macchia o il bosco spontaneo per trasformarli in strade, in piattaforme di cemento o in prati all’inglese, nel nome di un malinteso senso della bellezza.

Come si fa a spiegare che, ogni volta che si ha a che fare con la natura, bisogna lasciare che essa segua le sue leggi e regole, che le piante sopravvivono e vivono bene soltanto se le si lascia nella condizione che garantisce spontanei rapporti di collaborazione fra le varie specie?

Una rivoluzione culturale di questo genere sarebbe tanto più urgente in questi anni in cui si spiana qualsiasi cosa, si livellano le depressioni, si copre la terra di cemento e asfalto, salvo poi lamentarsi per i mutamenti climatici, dimenticando che si tratta delle inevitabili conseguenze della distruzione del verde, l’unico depuratore naturale dell’atmosfera, l’unico regolatore del flusso delle acque, l’unica fonte, mossa dal Sole, della vita.