A quaranta giorni esatti dalle elezioni federali, per la cancelliera Angela Merkel arrivano buone notizie. La recessione è finita, l’economia tedesca è tornata a girare, trainando quella europea. Così dice Eurostat, l’agenzia di statistica dell’Unione europea, e così afferma anche lo Statistisches Bundesamt (l’Istat tedesco). La fretta di dire che il peggio è passato è tanta: capitalizzare questo risultato, per il governo cristiano-liberale uscente, è fondamentale. L’immagine della Germania su cui Merkel fonda la propria campagna elettorale (già tutta in discesa) esce rafforzata dai dati diffusi ieri: il Paese è solido e ben amministrato, è «la locomotiva della zona euro».

È davvero così? Dubitarne è legittimo. Perché le percentuali di crescita del prodotto interno lordo (+0,7% rispetto al trimestre precedente, +0,5% nei confronti dello stesso trimestre dell’anno scorso) non dicono tutto. E soprattutto, l’interpretazione che se ne dà è determinante. Il liberale Philipp Rösler, ministro delle attività produttive e vicecancelliere, vede in questo risultato la conferma della bontà della sua ricetta: abbassare le tasse alle imprese serve ad aumentare gli investimenti e, quindi, a uscire dalla crisi. Ben diverso sarebbe attribuire, come fanno altri, questi segnali positivi al fatto che i consumatori ritornino ad avere qualche soldo in più da spendere, grazie a un allentamento della moderazione salariale. Oppure ancora, come suggerisce l’articolo di apertura del prestigioso settimanale “die Zeit”, agli effetti del famoso annuncio del piano straordinario di acquisto di titoli di stato dei Paesi in crisi da parte della Banca centrale europea, formulato da Mario Draghi a fine luglio 2012.

In ogni caso, se l’aumento del Pil è innegabile, è altrettanto vero che prima di cantare vittoria occorrerebbe attendere almeno la fine dell’anno. Secondo l’autorevole Istituto per la ricerca macroeconomica della Fondazione Hans Böckler, il centro studi del sindacato, per il 2013 complessivamente inteso è previsto che la crescita non sia maggiore dello 0,3%. Cifre da stagnazione, non certo da vera ripresa. I ricercatori della fondazione Böckler riconoscono che la crisi non peggiorerà: ciò non significa, però, che la si possa considerare ormai alle spalle. Come vuole, invece, la strombazzante propaganda governativa.

Impegnato nell’autocelebrazione, l’esecutivo di Berlino si ostina a non vedere l’altra faccia del Paese, quella che non emerge dai numeri del Pil, ma che viene denunciata, ad esempio, dalla confederazione sindacale unitaria Dgb. Un dato tra i tanti: in Germania ci sono 2,7 milioni di persone che fanno un secondo lavoro, a causa dello stipendio troppo basso guadagnato con l’impiego principale. E un terzo dei lavoratori non ha un posto con un orario pieno. Il proliferare dei cosiddetti minijob – salari bassi, zero contributi previdenziali o assicurazione medica – non solo sta generando una fascia sempre maggiore di lavoratori poveri (sette milioni), ma sta creando le condizioni affinché tra non molti anni scoppi un gigantesco problema di miseria nella popolazione anziana. Precariato e minijob significano, infatti, future pensioni da fame.

Nella «Germania occulta», poi, non mancano le crisi industriali: di ieri è la notizia di licenziamenti in vista nel settore dell’acciaio. Coinvolte le due principali imprese del ramo: la ThyssenKrupp e la Salzgitter. E in grossa difficoltà sono anche le ferrovie, da sempre vetrina dell’efficienza tedesca. Da giorni regna il caos sui binari della Renania-Palatinato (nel sud-ovest), a causa di un’improvvisa assenza di personale nella stazione centrale di Magonza, la capitale del Land. I rappresentanti sindacali denunciano la politica di «razionalizzazione» posta in essere dalla direzione: bastano un paio di capistazione e macchinisti in malattia o in ferie per inceppare il traffico. Troppi tagli? Così vuole l’imperativo di efficienza di un’impresa ormai più privata che pubblica, che agisce seguendo la logica del profitto. Anche questo è il celebrato «modello tedesco»: viaggiatori e ferrovieri se ne facciano una ragione.