Nel pieno di una crisi ecologica come quella che stiamo vivendo, che valore avrà mai il rapporto peculiare di una comunità di orticoltori e allevatori di maiali polinesiani con la terra della propria isola?
Nelle mie ricerche etnografiche a Futuna (Polinesia occidentale) ho imparato prima di tutto che occorre liberarsi del mito del buon ecologista primitivo. Quando arrivai per la prima volta sull’isola a metà degli anni Novanta, l’inquinamento delle coste era evidente. Taglienti lamiere arrugginite ferivano i bambini scalzi sulla spiaggia; carcasse di automobili spuntavano dalla vegetazione lussureggiante; periodicamente i cicloni trasportavano il contenuto dell’unica discarica dell’isola in pieno Oceano Pacifico.

ANCHE PRIMA DELL’ARRIVO degli occidentali (a metà Ottocento), la popolazione locale aveva vissuto crisi ambientali: il disboscamento delle parti alte della montagna aveva infatti eroso il suolo rendendolo improduttivo – di fatto vi crescono solo piccole felci. Eppure, la società di Futuna ha saputo reagire alle crisi dandosi nuove regole di condotta: nel tempo, alcune antiche foreste dette vao matu’a furono dichiarate tapu – un termine che noi abbiamo tradotto con «sacro», ma che in Polinesia ha molto a che fare con la preservazione delle risorse.

L’istituzione dei tapu (in Polinesia orientale si chiamano rahui) su boschi, risorse alimentari di terra e di mare (porzioni di barriera corallina) ha consentito a molte popolazioni oceaniane di trovare un difficile equilibrio, navigando con cognizione di causa nelle crisi ambientali che si sono succedute nel tempo (tsunami, inondazioni, terremoti, cicloni tropicali). Chiedersi come e perché molte società umane si siano imposte pause e limiti all’attività produttiva sembrerebbe un buon contributo al dibattito sul clima, e lo si può fare solo adottando uno sguardo «da vicino» alle società umane.

Qualche anno fa, nell’ambito di una collaborazione con la Fondazione Slow Food per la biodiversità, mi è capitato di occuparmi del modo in cui i Kanak, popolo aborigeno della Nuova Caledonia (un paese d’oltremare francese ed europeo), hanno costruito storicamente la loro relazione con l’ambiente. Un tempo orticoltori itineranti di taro e igname, due tuberi tuttora molto importanti per le comunità locali, nel corso di circa 3000 anni di occupazione di questo arcipelago melanesiano, essi non solo hanno saputo preservare la qualità del suolo e le caratteristiche dell’ecosistema originario, ma lo hanno notevolmente arricchito anche in termini di biodiversità.

IN 3000 ANNI, i Kanak hanno «inventato» circa trenta nuove lingue e selezionato centinaia di nuove varietà di tuberi, incrociando specie domestiche e selvatiche e dando vita a spettacolari forme di scambio di piante ed esseri umani nel corso delle cerimonie matrimoniali. Una cosa che ho imparato occupandomi della relazione tra società e ambiente in Oceania è che la posizione dell’essere umano non è necessariamente distruttiva. Non tutte le società, come ci ha insegnato Philippe Descola nel suo magistrale Oltre natura e cultura (Raffaello Cortina, 2021), dividono il mondo in «natura» e «cultura»: molte coltivano una ecologia delle relazioni, concependo l’essere umano come uno snodo di rapporti con gli altri esseri viventi, senza rivestirlo di qualità esclusive.
Parlare di concezioni locali dell’ambiente non vuol dire necessariamente evocare società lontane ed esotiche.

SERVONO OGGI al dibattito sull’ambiente le fini conoscenze di agricoltori, orticoltori e apicoltori capaci di seguire ed apprezzare il succedersi delle inflorescenze, dai crochi in primavera ai fiori gialli dei topinanbur che punteggiano in questa stagione il nord ovest dell’Italia in cui vivo? Lo sguardo locale è stato spesso la prima sentinella sui cambiamenti climatici. Furono gli appassionati di cammino nelle Alpi a comunicare al mondo che i ghiacciai si stavano ritirando. Furono popolazioni di nativi americani o di aborigeni australiani che si battevano contro la distruzione di siti sacri a paventare una reazione delle forze cosmiche (ciò che è avvenuto, sotto forma di aumento della temperatura globale) all’attività distruttrice di Homo Sapiens.

DAVANTI ALLA SFIDA epocale del cambiamento climatico repentino, occorre uno sguardo strabico, con un occhio attento alle dimensioni «macro» e con l’altro che scruta i punti di vista locali. È qui, nel modo in cui quotidianamente contadini, orticoltori, pastori transumanti e quel che resta dei cacciatori e raccoglitori, si relazionano alla terra; è nelle loro rappresentazioni dell’ambiente che possiamo trovare modelli e ispirazione per il futuro. Sapendo che nessuno di questi modelli si può applicare meccanicamente alla vita contemporanea. Eppure proprio su questo i popoli nativi ci offrono molti spunti: a differenza di come vengono comunemente rappresentati infatti, ovvero come «custodi» e «conservatori» di ambienti, essi ci insegnano molto sulla creatività culturale, sul modo di adattarsi a nuove situazioni e di reagire alle crisi.

La colonizzazione, le economie della piantagione come le chiamava Aimé Césaire, l’impatto con le religioni del «libro», l’esposizione a processi globali hanno comportato per molte di queste società trasformazioni radicali a cui esse hanno saputo (e dovuto) reagire, mettendo in campo innovazioni, adattamenti, improvvisazioni e resistenze. La crisi climatica ci costringe a un radicale ripensamento del nostro stile di vita, una «rivoluzione», ribattezzata erroneamente come «transizione» ecologica. Lo sguardo strabico ha molto da offrirci.

 

Ancona, la rassegna dal 15 al 17 ottobre

«Sospensioni. Che cosa ci insegna l’Oceania sull’Antropocene» è il titolo dell’incontro che l’antropologo Adriano Favole terrà il 16 ottobre alle ore 10 alla Mole Vanvitelliana di Ancona per «Kum!» (15-17 ottobre), festival dedicato alla cura e alle sue pratiche, con la direzione scientifica dello psicoanalista Massimo Recalcati e il coordinamento scientifico del filosofo Federico Leoni. 47 relatori tra filosofi e teologi, psichiatri e psicoanalisti, economisti e politici, sociologi e antropologi, scrittori e artisti in 30 incontri tra lectio, dialoghi ed eventi speciali si confrontano sul Nuova Caledonia, una maschera Kanak da funerale del XIX secolotema «Come ripartire. Cantieri».