L’occupazione dei Territori palestinesi occupati assume un volto più tecnologico e si consolida in vista dei programmi del nuovo governo ultranazionalista-religioso che sta formando il premier incaricato Netanyahu. Le autorità israeliane hanno annunciato con grande enfasi l’apertura del nuovo terminal di Qalandiya, tra Ramallah e Gerusalemme, il più grande dei posti di blocco in Cisgiordania. I palestinesi ora entrano in una struttura nuova, ampia e attrezzata per i controlli biometrici che consentono di velocizzare le procedure e di evitare le lunghe code che si formavano nel vecchio terminal. Vero, confermano coloro che sono costretti ad attraversare Qalandiya tutti i giorni. Ma se la forma è nuova e scintillante, la sostanza è sempre la stessa. I palestinesi della Cisgiordania settentrionale come prima sono costretti ad ottenere un permesso dalle autorità di occupazione e a superare una serie di controlli per entrare a Gerusalemme Est, la zona araba della città occupata nel 1967 da Israele, che considerano la loro capitale. Israele «non dovrebbe lavorare per abbellire i posti di blocco, piuttosto deve rimuoverli», commenta Azzam al-Ahmad, dell’Olp. Maher Awawda, del ministero dell’informazione dell’Autorità nazionale palestinese (Anp), punta il dito contro le tessere biometriche. «Israele – protesta – non può avere un database elettronico di persone che non sono suoi cittadini e che non votano alle elezioni».

Osservando il nuovo terminal di Qalandiya il pensiero corre subito all’annessione a Israele di gran parte della Cisgiordania palestinese annunciata da Netanyahu a inizio mese, poco prima del voto. Una mossa che non sarà messa in atto subito. Il premier attende la presentazione del piano Usa per il Medio oriente (“Accordo del secolo) che sarà annunciato, pare, alla fine del mese di Ramadan, nella prima metà di giugno. Piano che asseconda i disegni di Netanyahu. Le anticipazioni dicono che non prevede alcuna entità territoriale sovrana per i palestinesi ai quali verrebbero offerti solo aiuti economici (girano cifre di ogni tipo: 20, 30 forse 40 miliardi di dollari) in cambio della rinuncia alla libertà, all’indipendenza e al ritorno dei profughi nella terra d’origine. Non ci vuole molto a capire che il piano porterà a un nuovo riconoscimento statunitense. Dopo quello di Gerusalemme come capitale di Israele e del Golan siriano come parte dello Stato ebraico, Donald Trump non farà mancare la sua approvazione all’annessione annunciata da Netanyahu.

Questa soluzione potrà concretizzarsi solo con l’isolamento totale di Gaza – già considerata un territorio “estero” visto che al terminal di Erez la polizia israeliana rilascia, come all’aeroporto di Tel Aviv, un visto d’uscita quando si va in quel lembo di terra e uno d’ingresso al ritorno – e con la fine dell’Anp, chiesta a gran voce dai coloni e dai partiti dell’ultradestra che faranno parte del nuovo governo. Pur priva di sovranità, con limitati poteri su porzioni di Cisgiordania e con una leadership che gode di scarso consenso, l’Anp figlia degli Accordi di Oslo del 1993-94 incarna ancora agli occhi di tanti dirigenti politici israeliani l’embrione di un futuro Stato di Palestina, già riconosciuto all’Onu da oltre 130 paesi. Perciò la sua esistenza, almeno nella forma attuale, deve cessare. E a Washington e Tel Aviv si sono dati da fare per tagliare o bloccare una parte significativa dei fondi che garantiscono la sua sopravvivenza. Come i 138 milioni di dollari frutto della raccolta mensile di dazi doganali e tasse (2/3 del budget dell’Anp) e gli aiuti annuali per 200 milioni di dollari garantiti dagli Usa a progetti sociali e infrastrutturali.

Due giorni fa l’Onu ha lanciato l’allarme sulla stabilità finanziaria dell’Anp. I ministri degli esteri arabi hanno promesso aiuti mensili per 100 milioni di dollari e il ministro degli esteri dell’Anp Riad al Malki ha chiesto di incontrare i rappresentanti l’Unione Europea per parlare con loro del piano Usa. La ministra degli esteri dell’Ue, Federica Mogherini, ribadisce il sostegno alla “soluzione a Due Stati” ma all’interno dell’Europa diversi paesi chiedono di non chiudere la porta al piano di Trump. E altrettanto pensano alcune monarchie arabe.