Nel giorno in cui la maggioranza ha rinunciato a tagliare la durata dei contratti a termine da 36 a 24 mesi, per mancanza di un accordo politico in commissione Bilancio alla Camera, la nota trimestrale integrata Inps-Istat-Inail-Anpal e ministero del lavoro ha confermato che l’aumento dell’occupazione è dovuta a questi contratti a cui la riforma Poletti del 2014 cancellò la «causale» e oggi possono essere rinnovati anche cinque volte.

In un precedente rapporto congiunto, le principali istituzioni che si occupano di lavoro hanno convenuto sul fatto che la durata media di questi contratti è di tre mesi. Il loro aumento continua da sei trimestri ed è accompagnato da un boom del lavoro a chiamata (+77,9% in un anno) e di quello somministrato (+22,5%). Le posizioni a tempo determinato sono 390 mila, 81 mila in più rispetto al secondo trimestre, 146 mila in più rispetto al primo. Sono concentrate nel settore dei servizi, meno nell’industria, oltre che in agricoltura dove si ricorre di più al lavoro stagionale e discontinuo. In totale le attivazioni delle posizioni lavorative con contratto a termine hanno raggiunto il massimo storico: 1,86 milioni. Il lavoro a tempo indeterminato è, invece stabile: meno 6 mila unità nel trimestre. Anche il terzo trimestre 2017 ha confermato la mutazione strutturale del mercato del lavoro al tempo del Jobs Act. Nel paese in cui viene celebrata una «crescita» elusiva dell’1,5% del Pil il lavoro è povero e precario. Può essere rappresentato in questo modo: al centro c’è il continente dei contratti a termine. Intorno il lavoro a chiamata, intermittente e in somministrazione.

Queste tipologie contrattuali andrebbero considerate come ambiti comunicanti dove il lavoratore transita ed è in continuo movimento. Restano, alla fine, imprigionato nella trappola del lavoro sotto-inquadrato, sottopagato e strutturalmente precario. L’aumento dell’occupazione – il tasso relativo è tornato a quello pre-crisi, il 58,1, uno dei più bassi dell’area Ocse – è interamente dovuto a questa nuova tipologia di precariato, creata dalle riforme renziane.

L’aumento del transito tra una forma precaria e un’altra del lavoro comporta la diminuzione dell’«inattività» e un ristagno della disoccupazione all’11,2%. In un mercato del lavoro come il nostro esiste un paradosso: l’occupazione cresce, la disoccupazione non diminuisce, mentre restano stabili i dati – paurosi – sulla povertà assoluta (4 milioni di persone) e relativa (8 milioni). I segmenti più «attivati» (parola magica della politica neoliberale vigente) sono soprattutto gli over50, meno la fascia dei «giovani 15-34enni. La causa principale non è il Jobs Act, ma la riforma Fornero che ha allungato l’età pensionabile.

La rinuncia a modificare le norme sui contratti a termine è un altro segno della confusione in cui si trovano i «riformatori» del mercato del lavoro. Dopo avere creato il nuovo precariato, non hanno trovato un rimedio al guaio creato. La legislatura che si chiude consegna al futuro un problema di non semplice soluzione.