La condizione non solo per la fine della guerra in corso contro Gaza ma per una pace durevole è che anche l’Occidente riconosca Hamas «come forza politica e non solo militare». Questo affermano in un articolo su Foreign Policy (http://www.foreignpolicy.com) due protagonisti della politica internazionale: Jimmy Carter e Mary Robinson. Carter, ex presidente Usa e Nobel per la pace 2002, si è impegnato negli ultimi anni per la soluzione pacifica di diversi conflitti e contro le ingerenze destabilizzatrici del suo paese, scrivendo un libro-reportage sui territori palestinesi occupati dal titolo inequivocabile: «Apartheid». Mary Robinson, ex presidente della Repubblica d’Irlanda, è stata commissario Onu ai diritti umani. Sono entrambi membri del gruppo Elders, nato nel 2007, che conta dodici membri eterogenei, fra premi Nobel, ex capi di Stato e attivisti dei diritti umani.

Scrivono Carter e Robinson: «Hamas non può essere spazzata via, né si può pensare che coopererà alla propria eliminazione. Solo riconoscendone la legittimità come attore politico – che rappresenta una parte importante del popolo palestinese – l’Occidente può iniziare a fornire ad Hamas il giusto incentivo a deporre le armi». Invece, «con tutta evidenza, da quando nel 2006 le elezioni svoltesi con il monitoraggio internazionale portarono Hamas al potere in Palestina, l’approccio dei paesi occidentali ha contribuito al risultato opposto». L’articolo condanna la violenza dalle due parti (Stato di Israele e Hamas) perché «non c’è mai una scusa per gli attacchi deliberati contro i civili in un conflitto. Sono crimini di guerra. E questo vale per entrambe le parti»; ma va detto che in questa che è la «terza guerra a Gaza nel giro di sei anni», «se tre civili israeliani sono stati uccisi da razzi palestinesi, la grandissima maggioranza dei 1.600 palestinesi (ora più di 1.800 ndr) uccisi erano civili, e fra di loro 330 erano bambini». Carter e Robinson evocano le (ripetute e impunite) massicce violazioni del diritto internazionale compiute da Israele: «Non c’è alcuna giustificazione umana né giuridica per il modo in cui l’esercito israeliano sta conducendo questa guerra. Bombe, missili e artiglieria israeliani hanno ridotto in polvere ampie aree di Gaza, comprese migliaia di case, scuole, ospedali».

Una catastrofe umanitaria frutto di un «deliberato boicottaggio di quello che era un promettente passo avanti verso la pace nella regione: l’accordo di riconciliazione fra i palestinesi annunciato lo scorso aprile. Era stata una grande concessione da parte di Hamas, perché apriva Gaza al controllo congiunto di un governo tecnico che non comprendeva alcun membro di Hamas. Il nuovo governo palestinese si era anche impegnato ad adottare tre principi fondamentali: nonviolenza, riconoscimento dello Stato di Israele, rispetto degli accordi già conclusi». E invece, Israele ha «respinto questa opportunità di pace». Che fare allora, oltre a riconoscere Hamas? Occorre che il consiglio di Sicurezza dell’Onu intimi la rimozione almeno del blocco a Gaza. Il gruppo degli Elders saluta come importante l’unità palestinese anche perché «la ripresa del controllo su Gaza da parte dell’Autorità nazionale è una condizione per la fine del blocco da parte israeliana ed egiziana». Ma l’Autorità non può da sola occuparsi del compito di amministrare Gaza, secondo Carter e Robinson; quindi sarebbe «necessario e urgente il ritorno della Missione dell’Unione europea di assistenza alla frontiera, uno sforzo internazionale per aiutare a monitorare i movimenti transfrontalieri lanciato nel 2005 e sospeso nel 2007».

I due ex capi di Stato invitano le nazioni a partecipare attivamente ad una conferenza internazionale sulle convenzioni di Ginevra sul diritto bellico umanitario a protezione dei civili: chiesta dai palestinesi, ci sta lavorando il governo svizzero. La formula «due popoli, due Stati» è evocata come necessaria perché solo allora «i cieli della Terra santa saranno silenziosi di pace».