«Vai sulla barca, cerca il bar e troverai Robby Müller seduto di fianco alla macchinetta che vende le arachidi»,suggerì Wim Wenders a Jim Jarmush , che voleva incontrare il direttore della fotografia di Alice nelle città, L’amico americano e Nel corso del tempo – i film che avevano fatto di Wenders uno dei grandi protagonisti del Nuovo cinema tedesco anni settanta. Jarmush, che era a Rotterdam per presentare il suo primo film (Permanent Vacation, 1980) andò e trovò Müller nel suddetto bar vicino alla macchinetta delle arachidi; ne avrebbe usato l’occhio olandese per gli interminabili carrelli che accarezzano la New Orleans di Daunbailò, il bianco e nero folgorante di Dead Man, la struggente qualità pittorica di Ghost Dog, cementando così il forte rapporto tra la sua opera profondamente americana con il cinema d’autore europeo. «Robby è come un pittore fiammingo, un Vermeer o deHoeck, che è nato nel secolo sbagliato», disse il regista newyorkese al sito Cinephilia and Beyond.

 

Müller, mancato l’altro giorno a settantotto anni, è stato in effetti uno dei simboli e dei grandi fautori del dialogo tra i due continenti che animò tanto cinema indipendente dalla fine dei Seventies fino agli anni novanta. Non è un caso che Wenders volle proprio lui per sua splendida reinterpretazione di un western sacro come Sentieri selvaggi, Paris Texas.

 

«Müller aveva un grande occhio da straniero nei confronti degli States, particolarmente la West Coast. Uno sguardo fresco. Non girava cliché ma catturava quei dettagli che in genere in un film americano sono ignorati… Amava usare il sole in controluce. Articolava una scena con il minimo d’inquadrature possibile. Il che era adattissimo al film», disse William Friedkin con cui il direttore della fotografia girò To Live and Die in LA, trasformando lo smog di Los Angeles in una malsana aureola dorata che avvolge la storia e i personaggi.

 

Müller lavorò parecchio in America ma non fu mai adottato dalla macchina degli studios. Tra gli autori della Nuova Hollywood, il primo a scoprirlo fu Peter Bogdanovich, che l’usò in St. Jack e per catturare la splendida, malinconica, New York di E tutti risero. Mentre il raffinato conoscitore del western Alex Cox lo volle dietro alla macchina da presa di Repo Man, tutt’oggi il suo film più memorabile.

 


«Quando accetto un film, la cosa più importante sono i sentimenti umani. Cerco di lavorare con registi che vogliono toccare il pubblico con film che ti rimangono dentro, e di cui si discute anche dopo che la proiezione è finita», aveva detto Müller a Cinephilia and Beyond, cui aveva confidato anche la sua debolezza per il bianco e nero: «Il colore è un qualcosa di esotico che dà informazione superflua».

 

Nei registi «cercava delle ’anime gemelle’, come le chiamava lui.. Persone che gli piacevano e con cui poteva fare quello che voleva», afferma Jap Gulemond, curatrice di una grande mostra dedicata al direttore della fotografia dall’Eye Insitute di Amsterdam nel 2016 e ripresa l’anno successivo anche a Berlino.

 

 

La mostra, che attraversava l’arco della sua carriera, includeva anche i suoi video diari, centocinquanta delle duemila Polaroid scattate sui set, interviste con i registi con cui aveva collaborato, documenti e lettere. Nato nella colonia olandese di Curaçao nel 1940, Müller era arrivato ad Amsterdam a tredici anni e aveva studiato alla Netherland Film Academy. Da tempo era affetto da demenza vascolare.
Tra i suoi ultimi film, Dancer in the Dark di Lars Von Trier (per cui aveva girato anche Breaking the Waves) e – per Documenta 2002 – l’installazione di Steve McQueen Caribs’ Leap. «In un certo senso lo paragono a un muscista blues. Gli bastano poche note per dire tutto. È un purista», disse di lui l’artista/regista inglese residente ad Amsterdam.