«Ianitor Diaboli» è una antica formula ecclesiastica che diffida dell’occhio umano come del senso privilegiato dal Maligno in quanto canale della più viziosa curiosità. Il portinaio del diavolo. Occhiali e altre inquietudini (Rizzoli 2014) si intitolava peraltro un aureo libretto (si potrebbe dire un trattatello di metodica letteraria) di cui oggi Salvatore Silvano Nigro riprende quasi alla lettera l’immagine di copertina, proveniente stavolta dal particolare di un affresco (1352) di Tommaso da Modena che illustra l’ex convento di San Niccolò a Treviso, dove si vede un ecclesiastico attempato, all’impiedi davanti al leggìo, scrutare con la lente di ingrandimento i fogli di un codice che ha tuttavia le modeste dimensioni dell’enchiridion. Nessuna immagine, ancora una volta, potrebbe meglio introdurre Una spia tra le righe (Sellerio «La nuova diagonale», pp. 357, € 18,00), in cui Nigro raccoglie e riordina una trentina di partiture saggistiche il cui arco cronologico, quanto ai referenti, muove dalla fresca fioritura del Novellino per congiungersi alle pagine asperrime di Francesco Permunian: e si tratta, scrive Matteo Palumbo nella introduzione, di «un diorama luccicante che sarebbe difficile riportare a un’unità semplice».
Già il titolo è carico di conseguenze e rinvia alla epigrafe di ingresso, a firma Giorgio Manganelli (autore elettivo di Nigro, curatore da ultimo delle meravigliose recensioni riunite in Concupiscenza libraria, Adelphi 2020), secondo cui precipuo compito del lettore è sapere quali parole nasconda una parola e quali uno spazio bianco, o viceversa. Uno dei maestri della critica secolare, Leo Spitzer, aveva associato il termine «spia» alle figure-chiave di un testo ovvero alle sue dominanti linguistico-stilistiche e alla loro più o meno ossessiva ricorsività: Nigro muove dalla stessa urgenza (egli è un finissimo analista dei tessuti verbali) ma la sua direzione è diametrale e, si potrebbe aggiungere, opposta e complementare. Le «spie» richiamate da Spitzer sono infatti dei grumi aggettanti di senso, rovelli cognitivi, stilemi ideografici, mentre quelle captate da Nigro sono frecce che orientano verso un segreto non necessariamente verbalizzato ma che ordisce le parole del testo medesimo alla stregua di un demiurgo ben dissimulato. Nigro in altri termini legge e cioè rispetta la lettera del testo (e qui davvero il suo sguardo è lenticolare) proprio perché la sente provenire da un bianco, da un silenzio, da quel manque che è il principio generatore della parola letteraria.
Quanto a ciò, se Cesare Garboli disprezzava Jacques Lacan come fosse un ciarlatano o il Tartuffe della psicoanalisi, è probabile invece che Nigro, già docente alla École Normale Supérieure, ne abbia conosciuto la prassi ermeneutica, pure se ricevendola nel quadro di una rigorosa disciplina testuale e con la forma mentis della filologia. E d’altronde i lettori di Nigro sanno bene che per lui leggere non significa d’acchito «cogliere», come nell’etimologia, ma piuttosto cercare di farlo per reiterate approssimazioni, alle quali soccorrono griglie fittissime di erudizione e di sapere storico (circa gli invasi della letteratura e in genere delle belle arti, perché Nigro è naturaliter un comparatista).
Alla maniera di una sottaciuta autobiografia intellettuale, tornano in Una spia tra le righe i nomi primi della costellazione di Nigro, da Alessandro Manzoni (cui egli dedicò uno splendido profilo, La tabacchiera di don Lisander, Einaudi, nuova edizione 2012) a Tomasi di Lampedusa (qui si veda Il principe fulvo, Sellerio 2012); da Mario Soldati (perché Nigro è il promotore della vera e propria Soldati Renaissance degli ultimi vent’anni) ai compagni di via: Leonardo Sciascia, per cui ha scritto una quantità di contributi, e un Andrea Camilleri che ha saputo collocare nella sua rilevanza propriamente letteraria. Basterebbe, a restituire il senso di un metodo, l’immagine telescopica, «Uno, due, tre romanzi», che battezza tanto i Promessi sposi quanto il punto di vista dell’autore, il quale si rifrange in almeno altri due: «Manzoni rifà il romanzo dell’anonimo. Lo ‘raccomoda’. E con le sue ‘diligenze’ bibliografiche lo integra, lo ‘conferma’ e lo ‘dilucida’. Terzo narratore, venuto ultimo, dopo Renzo e dopo l’anonimo, nella finzione del romanzo (…) Il narratore terzo dei Promessi sposi si sdoppia ancora una volta. Dapprima si presenta nel ruolo d’autore di secondo grado di un romanzo storico, che racconta anche come si costruisce un romanzo storico con i criteri della verosimiglianza. Poi riduce a passi stretti il giocar largo. Si fa autore di una ‘breve storia’, che è un’indagine storicamente ravvicinata, in prosa compressa e volutamente senz’aria, scabra e asciutta, e raggelata da brividi d’orrore (…) Indossa la divisa rigorosa dello storico. Introduce la Storia della Colonna Infame. E procede a smontare dall’interno la verosimiglianza del romanzo storico».
Come si è appena visto, nonostante una spiccata attitudine ermeneutica Nigro non cede mai al virtuosismo perché mai si sottrae al vincolo della filologia. E questo è il caso, per esempio, di «Tomasi di Lampedusa, Marguerite Yourcenar, Maria Bellonci, e un prete canadese», dove si viene a sapere che Tomasi entrò precocemente in possesso di Mémoires d’Hadrien (1951) e che, proprio negli anni in cui ideava Il Gattopardo, «lesse e rilesse il romanzo. Si entusiasmò. Trattenne a lungo la copia. La logorò. (…) Vi rilevò il ‘desiderio di morte’ e il sedimento di lutto che saranno poi le costanti del Gattopardo»; ma è anche il caso del saggio relativo a L’attore di Mario Soldati e all’accusa di negligenza stilistica che bolla da sempre lo scrittore piemontese, un capo di accusa che il critico trasforma in una liberatoria e anzi in una precisa caratterizzazione stilcritica: «La chiarezza di superficie è una finta modestia di scrittura. Che dissimula i fondali nei quali si saldano, e intorbidiscono, logica, retorica e passione».
Dal suo maestro Carlo Muscetta (qui gli sono riservate le pagine che introducevano il memoriale autobiografico L’erranza, Sellerio 2009) ha dedotto la libertà intellettuale che lo porta a conoscere i percorsi laterali e meno battuti ma che talora conducono a grandi soprese. Non è casuale, dunque, la stima nei riguardi di Permunian, fin dal memorabile romanzo d’esordio Cronaca di un servo felice (’99), che viene rinnovata nella prefazione che arricchisce il palinsesto d’avvio di uno degli autori più originali di oggi, Costellazioni del crepuscolo (il Saggiatore 2017), dove il critico osserva che Permunian va a caccia di incubi come altri vanno col retino a caccia di farfalle e che li cerca, quei suoi incubi (si badi bene), «persino negli spazi in apparenza vuoti, tra lemma e lemma in un vocabolario, tra rigo e rigo in un libro (…) li stana e, senza ordine alcuno, li insacca in un suo metafisico archivio del caos». Pure qui è in gioco la capacità di interrogare i vuoti nello spazio e i silenzi disseminati nel tempo, la stessa attitudine che, se guardata dalla parte del critico, tende a congiungere filologia e gnostica. Tale è il motivo per cui, in filigrana, si può leggere il titolo Una spia tra le righe come un emblema vocazionale e il volume come una autobiografia intellettuale. Perché anche qui è in questione l’occhio che venne detto Ianitor Diaboli e da cui, notoriamente, guarda le pagine dei libri Salvatore Silvano Nigro.