Ci sono alcune regole fondamentali per fare un buon documentario: distanziare se stessi dal punto di vista scelto, amare il proprio soggetto, riprendere eventi, sequenze di vita evitando interviste o una narrazione «posticcia». Parola di Albert Maysles che a «filmare la realtà» ha dedicato tutto il suo lavoro di cineasta cercando di mettere a fuoco in ogni film, da solo o insieme al fratello David col quale ha collaborato fino a quando è scomparso nell’87, le molte e possibili variazioni del cinema diretto di cui viene considerato uno dei pionieri. La scommessa è un approccio che permetta alla vita umana di svolgersi davanti alla macchina da presa «così come è», senza sceneggiature o scenografie che non siano quelle già esistenti. Dove il regista è invisibile almeno idealmente pure se nel tempo – pensiamo a un film come Grey Gardens (1976) – se ne sente la presenza (…) È questione di sensibilità, di delicatezza, di complicità, e soprattutto si tratta di riuscire a catturare quei «momenti divini» – così li chiama Maysles – preziosi e imprevedibili (…).

Cominciamo dal suo primo film, «Psychiatry in Russia». Cosa l’ha spinta negli anni Cinquanta a filmare gli ospedali psichiatrici sovietici?

Allora era impossibile girare negli ospedali psichiatrici americani. La legge voleva proteggere la privacy dei pazienti che non erano in grado di dare la liberatoria perché non coscienti. È per questo che Titicut Folies (’67) di Wiseman è stato vietato così a lungo negli Stati uniti (fino al ’92, ndr). Ovviamente era un modo per occultare le reali condizioni di vita in quegli istituti – nel caso del film di Wiseman parliamo di un manicomio criminale (Bridgewater nel Massachusetts, ndr). Volevo anche raccontare un paese come la Russia di cui non sapevamo nulla, se non quanto la propaganda ci aveva sempre detto, mostrandone un’immagine inedita. Se ci pensiamo è una cosa che vale ancora oggi. Guarda cosa è accaduto in Iraq: il nostro modo di percepire gli altri è stato determinato dalla propaganda. Che si è rivelata falsa ma intanto eravamo in una guerra da cui è difficile uscire. All’epoca era lo stesso. Pensavo che fosse importante superare la cortina di ferro investigando su un tema come la malattia mentale. Allora studiavo psicologia, ero convinto che fosse mio compito trasmettere l’esperienza nel campo a altre persone. All’inizio avevo pensato di fare una serie di fotografie poi ho deciso che era meglio filmare e mi sono fatto prestare una 16 millimetri. Sono riuscito a entrare in Russia con un semplice permesso da studente che durava trenta giorni. Quando sono arrivato lì mi hanno invitato a una festa all’ambasciata rumena, dicevano che c’era qualcuno influente che poteva darmi un permesso per girare negli ospedali. E così è stato. È vero che i rapporti tra i nostri paese erano tesi, e questo rendeva le cose più difficili, però avevo dei margini personali in cui muovermi. Il documentario non è come la fiction, sei nel mondo reale, devi confrontarti con le persone e con gli ostacoli e questo modifica le cose. Nel processo di filmare si diviene amici.

Quindi la cosa fondamentale per lei è vivere le situazioni che si stanno raccontando. 

In un certo senso. Per questo trovo che le nuove tecnologie digitali siano fantastiche. Ma non significa che tutti faranno dei film. Ognuno di noi scrive lettere o mail, pochi riescono a scrivere un romanzo. Un documentario deve raccontare non cosa potrebbe accadere ma cosa accadrà.

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A cosa sta lavorando? 

Il progetto si chiama Transit, sono diverse storie girate sui treni. Nascono da incontri che ho avuto tra America e Europa con persone che stavano vivendo momenti particolari della loro esistenza: una figlia che rivedrà sua madre dopo trent’anni portandosi dietro il figlioletto; una coppia che ha adottato i figli della sorella di lei, uccisa dal marito alcolizzato … In questo caso il digitale è stato fondamentale, non credo che avrei potuto ottenere lo stesso sentimento di verità se avessi avuto un’attrezzatura pesante.

Lei parla spesso di «momenti divini». Cosa intende?

Un caso, qualcosa di molto importante, il segno che Dio è con te mentre stai filmando. Hitchcock diceva spesso che il regista è come dio. Nella non-fiction dio è regista, nel senso che all’improvviso ti arrivano immagini inaspettate che sono quanto cercavi anche se fino allora non lo sapevi. Dicevo prima della tecnologia. Certo ha un valore, però continuo a credere che sia importante qualcos’altro:essere nel posto giusto al momento giusto con le persone giuste. Penso a un passaggio in Gimme Shelter, quando riprendo i Rolling Stones in studio mentre ascoltano in playback White Horses. È intenso, vediamo le loro facce, i loro occhi, abbiamo l’opportunità di osservare i musicisti mentre «studiano» se stessi. Mi è venuto in mente dopo che avevo pensato a mio padre. Gli piaceva molto ascoltare la musica così. C’è un altro aspetto per me molto importante, specie in certi film. Il fatto cioè di riprendere eventi di cui sei parte e testimone al tempo stesso insieme a una moltitudine come è accaduto quando giravamo il film sulle primarie democratiche tra Kennedy e Humphrey (Primary, ndr).

Lei preferisce la definizione di «cinema diretto» a quella di «cinéma vérité». 

Sì, mi sembra che esprima meglio l’esigenza che ne è alla base, cioè avvicinarsi alla gente il più possibile. Per questo non trovo alcuna differenza tra filmare persone famose e persone «comuni», in entrambi i casi cerco di guardare dietro alle quinte per stabilire un contatto più stretto. Quando siamo stati contattati da Truman Capote era perché non voleva fare un film di finzione sul suo romanzo. Non potevamo che raccontarlo così, con lo scrittore che «rivela» se stesso (…).

È stato difficile far vedere circolare i suoi film?

Alcuni sì, altri meno. Grey Gardens è stato molto visto e così Salesman. Altri sono stati presi male come un film su una famiglia molto povera african-american. Mostrava cose che si preferisce non vedere, il fatto che in America ci sia tanta povertà e anche molta discriminazione.

A proposito del documentario oggi: Michael Moore o Errol Morris?

Mi sento lontano da tutti e due. Mi piace più Morris, Moore mi sembra troppo aggressivo, non apprezzo il modo in cui si avvicina alle persone manipolandole per dimostrare le sue tesi anche se condivido le sue idee politiche. Però credo che l’opera d’arte sia più potente del soggetto che racconta. Gli autori di documentario contemporanei sottomettendo il lavoro di ricerca a una specie di propaganda, e questo non permetta di arrivare alla verità.